Al centro di Un attimo prima della fine del messicano Emiliano Monge c’è la follia, o meglio, la paura di soccombere a essa. Non si tratta solo di una malattia che ha consumato almeno quattro generazioni, ma di una forma di male che, prima inavvertitamente e poi fragorosamente, prospera nella casa di famiglia – e in tutti i suoi rami – fino a far marcire le fondamenta. Le dipendenze, le tendenze suicide, l’incapacità di amare, i deliri autodistruttivi sono alcuni degli aspetti più evidenti di questa follia. Comprendiamo allora che quella madre che si confessa al figlio come in una seduta di psicoanalisi, quella madre decisa a ristabilire l’equilibrio della sua prole indifesa – una schiera di persone non amate, abbandonate e potenzialmente folli – che ha protetto con incandescente devozione, è una donna spezzata in due. Nell’universo devastante di Monge non c’è posto per il sentimentalismo. La sua protagonista – di cui non viene mai rivelato il nome – appartiene alla stirpe delle insubordinate, mai soddisfatta, sempre pronta alla battaglia. Se osa mostrare le sue debolezze è perché da loro ha tratto le armi per combattere, tanto contro i vincoli sociali quanto contro i propri demoni. Che cos’è la letteratura, si chiede Monge, se non un tentativo di ristabilire l’ordine perduto, un argine contro il caos? E cosa siamo noi se non un tronco che fulmini dormienti attendono di colpire per incendiare tutte le foreste, tutte le città e tutte le anime?
Roberto Pliego,Milenio
Mendicare è la loro vita. O ciò che ne resta, qualche metro di marciapiede nel quinto arrondissement di Parigi, giornate di freddo e di fame e quelle ossessioni che li crocifiggono. “Siamo dei barboni e basta, non c’è bisogno di nascondersi dietro parole più gentili come senza fissa dimora” . Ciò che gli resta è ciò che li lega: il narratore di vent’anni, in strada da quando la sua famiglia si è dissolta, ricco solo di questa frase che sua madre gli sussurrava: “I miei occhi vedono solo te”; Tamas, il rom della rue Cujas, il tipo che non si arrende mai e non abbassa mai lo sguardo di fronte al disprezzo; Moussa, il nero della rue de l’Estrapade, la cui miseria tocca meno di quella del vecchio Philippe sulla grata di ventilazione del Panthéon. Philippe ama leggere, piace alla gente, “dà una bella immagine della miseria”. Max De Paz, con talento scintillante, ad appena 22 anni, racconta la vita di questi uomini nella loro verità nuda e cruda. Scrive in modo tagliente e descrive con forza questa condizione disumana. E lo fa con un po’ di umorismo per salvarsi. L’autore lancia in faccia ai passanti e ai lettori la loro buona coscienza quando danno una moneta. De Paz si rivela un romanziere esaltante quando immagina l’incontro del narratore con una donna dalla dolce follia. Le due anime si scaldano, s’infiammano come pietre focaie, insieme si ridanno forza e reclamano la loro parte. La fine di questo romanzo d’esordio è sublime, la prova di un grande scrittore in divenire.
Olivia de Lamberterie, Elle
Lo scrittore olandese Mathijs Deen aveva inizialmente l’intenzione di descrivere il fiume Reno come un essere vivente, nato e destinato un giorno a morire. Ma, dopo aver parlato con il geoscienziato Kim Cohen, ha dovuto abbandonare quest’idea. Il Reno non ha un’origine, né fisica né storica, è un mito ottocentesco. Non esiste un punto preciso in cui il fiume nasca. Ci sono molti luoghi in cui il Reno è solo un ruscello stretto, facile da scavalcare. Ma queste numerose sorgenti non possono essere definite un’origine. La sua vera sorgente è la pioggia, che cade su tutto il bacino idrografico. Non è neanche possibile indicare un inizio temporale: pioveva e l’acqua scorreva verso il mare, dall’alto verso il basso, ben prima della formazione delle Alpi. Durante le glaciazioni, il mare era molto più lontano: il mare del Nord era terra. Deen riesce a rendere comprensibile l’immensità del territorio descrivendone ogni angolo. L’insieme – che si estende dalla Svizzera alla Francia settentrionale, a gran parte della Germania e metà dei Paesi Bassi – ha la forma di un orso che pattina sul ghiaccio. Questa figura è disegnata sulla mappa all’inizio del libro. I racconti che compongono questo libro sono meravigliosi, ma nel complesso hanno anche qualcosa di arbitrario. Tuttavia, ancora una volta, Deen dimostra di sapere come far rivivere la storia da una prospettiva originale e come coinvolgere il lettore.
Alek Dabrowski, Boekenkrant
Un giorno una ragazza affamata dai capelli rossi emerge dalla foresta, come un animale selvatico. Stravolgerà la vita degli abitanti del villaggio di Montées, una regione isolata dal mondo dal fiume Basilisco. La vecchia Rose la cattura e Amber, disperata per la mancanza di figli, adotta la bambina e la chiama Madelaine. Alla bimba non piace il patrigno Leon, un ubriacone. Fate attenzione alla luce incandescente che emana dagli occhi di questa ragazzina pronta a tutto pur di sopravvivere. Il “perturbante” di cui parlava Freud è al centro di una trama finemente congegnata. Sandrine Collette riesce anche nell’impresa di far parlare una narratrice – inseparabile da Madelaine – di cui non sappiamo nulla. La scoperta della sua identità a metà del libro è sconvolgente. La scrittrice, che ha esordito con i thriller, sa come portare il lettore dove vuole lei. Madelaine prima dell’alba emana un profumo di terra e sangue che rimane a lungo nella mente. Claire Julliard, L’Obs
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