Donna Langley guarda solo avanti. Si muove decisa nella sala da pranzo della Petite maison, un ristorante francese in una strada secondaria del quartiere di Mayfair, a Londra. Siamo lontani da Los Angeles, dove potrebbe distruggere senza fatica una carriera. Sto pranzando con quella che è probabilmente la donna più potente di Hollywood.

Presidente della Universal pictures, ha preso una casa di produzione cinematografica in difficoltà – la più vecchia negli Stati Uniti ancora attiva – e l’ha riportata a uno stato di salute eccellente. Quando torna a Londra, Langley, che ha 53 anni ed è britannica, è una cliente abituale di questo ristorante. “È qui che siamo venuti dopo aver concluso l’accordo sul film di James Bond”, dice. Tra le ultime uscite della sua Universal c’è No time to die. Fare affari con un marchio già famoso è un lusso raro. I suoi trionfi includono anche vincitori del premio Oscar (Green book), opere culturalmente incendiarie (Scappa. Get out) e la serie cinematografica della casa, s, il cui ultimo episodio, , ha recentemente raggiunto la vetta del botteghino negli Stati Uniti, in Russia e in Cina.

Donna Langley alla Universal City, in California, il 26 giugno 2021  (Rich Fury, Getty Images per CTAOP)

Langley è diventata presidente della Universal nel 2013. Da allora – dopo molti anni di stagnazione – lo studio ha incassato per due volte più di cinque miliardi di dollari all’anno. Sotto la sua direzione Steven Spielberg è tornato nel posto dove aveva cominciato la sua carriera. Ma il covid-19 ha costretto a misure d’emergenza anche le aziende modello. Il passato della Universal risplende di film che hanno fatto la storia: Lo squalo ed E.T. L’extra-terrestre di Spielberg, Scarface, il Frankenstein con Boris Karloff. Nel 2020 a questi titoli si è aggiunto Trolls world tour, improbabile veicolo di una rivoluzione. In piena pandemia, Langley lo ha usato per trasformare completamente il rapporto di Holly­wood con lo streaming.

E, per estensione, con le sale cinematografiche. “Cos’altro potevamo fare?”, chiede. Quando sono cominciati i lockdown nel 2020 la Universal non aveva una sezione per fare profitti dai film trasmessi su internet. “Sono brava durante le crisi. Quindi nonostante il caos e le paure, sono rimasta molto calma”.

Dopo aver mandato a casa per due settimane i suoi dipendenti, Langley ha rinviato al 2021 i film in sospeso. Ma Trolls world tour – il sequel di un film d’animazione per famiglie del 2016 ignorato dalla critica ma piaciuto al pubblico – è stato messo in vendita sui siti di streaming nello stesso giorno in cui è uscito nei cinema drive-in. Un fatto mai accaduto. Nelle tre settimane successive ha guadagnato quasi cento milioni di dollari su internet, più di quanto l’originale abbia incassato in cinque mesi nelle sale.

Si avvicina un cameriere. Anche se si è trasferita negli Stati Uniti nel 1991, Langley ha solo un leggero accento americano. Sembra contenta quando glielo faccio notare. “Mi sento ancora britannica”. Le chiedo di spiegarmi meglio e lei ci prova: “Una questione di modi di fare?”. Poi si blocca. “Ne riparleremo dopo”. I suoi gusti però sono diventati statunitensi. Impossibile trovare un buon tè freddo a Londra, dice. Ne ordina comunque uno.

Regola d’oro

Il passaggio di Trolls world tour sulle piattaforme di streaming ha creato anche molta rabbia. Nel tentativo di salvare le attività principali della Universal, Langley ha messo fine unilateralmente alla sacra “finestra di novanta giorni”, durante i quali i film potevano essere proiettati solo nelle sale cinematografiche. Abbandonando questa regola, è diventata una specie di cattivo dei film di James Bond. Il timore era che il nuovo sistema sarebbe continuato dopo i lockdown (così è stato). E che altri studi cinematografici avrebbero seguito l’esempio (lo hanno fatto). L’Amc, la più grande catena di sale cinematografiche del mondo, ha annunciato un boicottaggio dei film della Universal.

A volte, le dico, sembra che le sale cinematografiche siano convinte che il mondo sia in debito con loro. Langley fa una pausa. Fa spesso delle pause. Alcune divertite, come se tu avessi espresso un pensiero che non le sarebbe mai venuto in mente (fare dei film di supereroi la annoierebbe? Pausa). Altre sono fredde. Quando le parlo delle voci che circolavano a Londra lo scorso autunno, secondo cui No time to die era stato offerto alle piattaforme di streaming per seicento milioni di dollari, si fa silenziosa, poi brusca: “Non ne so niente”.

Mentre andava avanti nella sua carriera, spesso si preoccupava del lavoro degli altri

Eppure nel 2021 è tornata la pace. I cinema hanno riaperto e i film di Langley sono stati fondamentali per richiamare le folle. Tutte le case di produzione ormai trasmettono su internet anche i grandi successi, molto più rapidamente di quanto fosse pensabile nel 2020. Se ritardano l’uscita online, lo fanno di trenta o quarantacinque giorni. O, come nel caso dell’accordo raggiunto tra la Universal e un’Amc riappacificata, diciassette. È come se il vecchio ordine non fosse mai esistito: “Oggi tutte le aziende prendono iniziative innovative”.

Langley ordina un’insalata nizzarda: “Ne ho una voglia matta. Qui cucinano il tonno sotto vuoto”. Lo presenta così bene che sono tentato anch’io. Arriva un cameriere con un bicchiere di qualcosa di simile a una Coca Cola viscosa. È il tè freddo di Langley. Ne beve un sorso. “Ha un sapore abbastanza buono. Ma non somiglia neanche un po’ al tè freddo”.

La Universal ora ha una sua piattaforma di streaming, Peacock. Langley sostiene che le sale cinematografiche possono fare ottimi incassi anche quando le piattaforme di streaming trasmettono gli stessi film. “Il nostro modello d’affari si basa su questo, quindi devo crederci. Ma ci credo davvero. Quando si fa un lancio nei cinema, la dimensione di evento che creano le sale rende il film importante. Lo streaming fa parlare delle serie, non dei film,”. Però ha moltiplicato i talenti, afferma. Tenere il passo richiede abilità: “I registi hanno buone esperienze con noi. E il nostro marketing dev’essere brillante, perché non siamo la Disney. Non abbiamo una riserva infinita di diritti d’autore” (lo studio non ha mai comprato una casa editrice di fumetti come ha fatto la Disney con la Marvel; la serie è stata creata internamente).

In pieno fermento

Langley parla della Universal con una lealtà da samurai, presentandola come un’azienda senza fronzoli, addirittura “alla buona”. “Non siamo un marchio tipo Tiffany come la Warner Bros”. Una relazione hollywoodiana che non è sopravvissuta al 2020 è quella tra la Warner e un regista dalla mentalità tradizionale come Christopher Nolan. Dopo aver attaccato i suoi finanziatori di lunga data per essersi concentrati troppo sulla piattaforma Hbo Max, Nolan farà il prossimo film – sulla vita del fisico Robert Oppenheimer – per Langley. Lei sorride: “Chris è sempre stato una priorità”. Il suo film rimarrà nei cinema per almeno novanta giorni.

Nolan raggiunge così Spielberg tra i grandi nomi dello studio (il prossimo film di Spielberg, The fabelmans, sarà distribuito dalla Universal nel 2022). Ma intorno a loro Hollywood è in pieno fermento. Se è vero che i registi di punta sono ancora circondati da una grande stima, quest’anno si è parlato molto della perdita di prestigio delle star, quando Scarlett Johansson ha fatto causa alla Disney in un’altra disputa legata allo streaming. Per Langley è “una di quelle situazioni da evitare a tutti i costi”. Le aziende tecnologiche hanno sconvolto il settore. Langley dice che il movimento #MeToo ha giustamente fatto fuori molte delle figure più potenti e consolidate. Lei vorrebbe cambiare anche i cancelli all’ingresso della Universal: “Così grandi e monolitici dicono: ‘Vietato l’accesso’. Io voglio ribaltare la situazione”.

Arrivano due grandi ciotole di vetro con tonno. “Bon appétit”, gioisce.

Langley e suo marito, il decoratore d’interni Ramin Shamshiri, hanno una seconda casa a Ojai, a nordovest di Los Angeles, che ogni tanto appare sulla rivista Architectural Digest. La coppia e i loro due figli hanno trascorso lì la pandemia. Langley ha sentimenti contrastanti su Los Angeles. Il problema dei senzatetto la deprime. “Ma ci sono molte cose che amo”.

È cresciuta sull’isola di Wight negli anni settanta. Suo padre era un ingegnere dell’autorità per l’aviazione civile, sua madre un’attivista che la portava alle marce di Greenpeace. La coppia adottò Langley quando lei aveva un anno. Suo padre biologico era egiziano. Non ha mai cercato i suoi genitori naturali. Il suo rapporto con quelli adottivi è stretto.

Biografia

1968 È il suo anno di nascita. L’anno dopo è adottata da una coppia che vive sull’isola di Wight, nel Regno Unito.

1991 Si trasferisce a Los Angeles, negli Stati Uniti.

2001 È assunta dalla Universal pictures.

2009 Nasce il suo primo figlio. È promossa copresidente della Universal.

2013 Diventa presidente dell’azienda.

2020 Allo scoppio della pandemia decide di distribuire i film in prima visione sulle piattaforme di streaming.


Ha anche detto che sapere di essere stata adottata le ha dato indipendenza, un senso di possibilità. Arrivò a Los Angeles a 22 anni, con una lettera di presentazione per un agente letterario. Ottenne un lavoro al Roxbury, un nightclub sul Sunset boulevard amato dai giovani di Holly­wood. Tra i clienti abituali c’era il produttore Michael De Luca, che la assunse alla sua casa cinematografica New Line. Langley ammette di non essere cresciuta amando il cinema. Eppure qualcosa in lei ha cominciato ad appassionarsi ai meccanismi di creazione e vendita dei prodotti d’intrattenimento. Diventò una tuttofare che imparava in fretta, dedicandosi a setacciare i rapporti finanziari o a guardare i “giornalieri” non montati delle riprese.

La formula giusta

È entrata alla Universal nel 2001. La vita allo studio prometteva sicurezza, ma la realtà sbandava tra una crisi e l’altra. Mentre andava avanti nella sua carriera, spesso si preoccupava del lavoro degli altri. “Ho le mie opinioni”, dice degli anni passati ad ascoltare decisioni sbagliate. “Dico come la penso, per dormire tranquilla. Ma se chi comanda vuole che le cose vadano diversamente, bisogna accettarlo”. Più tardi aggiunge: “C’era anche la sindrome dell’impostore”. Il suo primo figlio è nato nel 2009. Lo stesso anno, Langley è stata promossa copresidente in seguito a un complicato accordo tra le aziende Comcast e General Electric. A Hollywood giravano voci: “C’era una strana storia secondo cui ero troppo intelligente”.

Nel 2013 la Comcast ha comprato l’intero studio. Langley è stata nominata presidente. Sembrava un calice avvelenato, ma la cultura pop si è rivelata il suo asso nella manica. È riuscita ad assicurarsi i diritti di Cinquanta sfumature di grigio, il libro della scrittrice E.L. James. Un film come Steve Jobs ha dato lustro allo studio, ma un occhio attento alle storie meno raccontate ha permesso di realizzare Straight outta Compton, un film biografico sul gruppo rap N.W.A, che è piaciuto molto al pubblico.

Il metodo di Langley si è rivelato un successo: un uso ingegnoso di risorse limitate. Se sostenuta dalle relazioni personali con gli artisti, la formula regge. La lista delle ultime fatiche va da Jurassic world. Il dominio al film dell’autore di culto Paul Thomas Anderson, da horror intelligenti al favorito agli Oscar, Belfast. Tanti prodotti e mai un budget così grande da rischiare di affondare la nave.

Langley era una delle due sole donne a dirigere un grande studio di Hollywood. Dopo il licenziamento di Amy Pascal dalla Sony nel 2015 è rimasta l’unica. “Non puoi fare altro che continuare a lottare”, dice. Quest’anno la Universal farà uscire She said, adattamento dal libro delle giornaliste Jodi Kantor e Megan Twohey, il cui lavoro ha contribuito a smascherare Harvey Weinstein. “Non ho mai vissuto nulla di orribile nella mia carriera, ma c’era un’atmosfera che ora non sarebbe tollerata. Per questo sono impressionata dalla generazione Z. Non accetta cose simili”. Langley è cresciuta nell’ambiente cinematografico degli anni novanta, oggi noto perché c’erano molti abusi. È stata sorpresa da quello che è emerso? “Sì. E inorridita”. C’è un silenzio pesante. “Ti piace il tonno?”.

All’inizio della carriera alla Universal, Langley ha scommesso sulla produzione del musical Mamma mia!. “Ci sono state resistenze”. Era sessismo? “Diciamo che non tutti amavano gli Abba quanto me”. Eppure, era una questione di principio: “C’era la volontà di fare film per gli spettatori più ignorati. Forse perché sono una di loro”. Il film è costato 52 milioni di dollari. Uscito nel 2008, ne ha incassati 603.

Langley ha anche sostenuto il regista nero di film horror Jordan Peele. Il suo debutto del 2017, Scappa. Get out (costato 4,5 milioni di dollari), è una satira pungente delle questioni razziali negli Stati Uniti. Ha incassato 251 milioni di dollari.

Pochi settori si sono tormentati sul tema della diversità come Hollywood. Per Langley, parte della soluzione è semplice: il capitalismo. Fare film intelligenti e accessibili girati da – e che parlino di – donne o persone non bianche è la cosa giusta e fa vendere biglietti, dice. “E noi lo abbiamo fatto prima che diventasse un imperativo del settore”.

Quando parla dei successi, dice spesso “noi”. L’“io” mancante rientra in una deliberata frattura con i tirannici “capi degli studi cinematografici del passato”. Langley dice di avere ancora bisogno di “spavalderia” interiore per prendere decisioni importanti. Le piacciono i numeri, ma si capisce che le piacciono di più quando sono d’accordo con lei. Visti i miliardi di dollari che uno studio rischia producendo film, Langley si affida a quello che funziona. Perde le staffe? “No, no. Ci vuole molto per farmi arrabbiare. Ma non ho problemi a dire quello che penso”.

Passiamo al caffè. E così, inevitabilmente, parliamo di Cats. Per quante cose possa aver fatto Langley nella sua carriera, pochi film nella Hollywood di oggi sono stati un fiasco paragonabile al musical del 2019 girato dal regista Tom Hooper e sostenuto dalla Universal. I costumi pelosi degli attori sono diventati una presa in giro. Langley sospira: “Senza sarebbe stato un grande film. Stavamo inseguendo una tecnologia che non esiste. Ma mi prendo le mie responsabilità. Cominciando con il dire: ‘Accidenti, mi sono sbagliata’”.

Altre decisioni la attendono. Tutto il settore è impegnato in una battaglia per conquistare l’attenzione della generazione Z (le persone nate tra il 1997 e il 2012). E il quasi sciopero delle troupe di Hollywood dello scorso ottobre è stato un segnale che ci sono dei problemi (ci sono “aree di possibile miglioramento”, ammette). E poi c’è Peacock, che fa capo alla Comcast. Nonostante la sua lealtà aziendale, l’amore di Langley per lo streaming è limitato. Poiché è convinta che la magia dei film sia dovuta all’importanza data dal cinema, pensa che un grande debutto su un computer sia una contraddizione in termini? “Devo credere il contrario”. Questa è la scommessa più importante di Langley: assicurarsi che, colmando il divario tra cinema e streaming, non abbia rotto lei stessa l’incantesimo.

Un’ultima domanda. Tutte le carriere di Hollywood si lasciano dietro dei cadaveri. Dove sono i suoi? Langley rotea gli occhi, fredda. “So come farmi strada. Ma i miei genitori hanno fatto un buon lavoro. Mi piace essere rispettosa. E i panni sporchi li lavo in casa”. Il Financial Times paga il conto. “Dirò una cosa. C’è stato un po’ di scompiglio allo studio quando sono stata promossa. Una cosa sgradevole. Ed è stato un incentivo a fare le cose diversamente, appena ho potuto imprimere la mia direzione”. Gli studios sono tradizionalmente pieni di persone da studios, che si comportano in modo terribile. “Io ho sempre visto quel mondo da fuori”. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1446 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati