Cara Elena Ferrante,

grazie di tutto quello che hai scritto. Sono una tua grande ammiratrice e ho letto tutti i tuoi libri, e ciò mi ha permesso di correre nuovi rischi come scrittrice: un’altra cosa di cui ti sono grata. In questo straordinario nuovo libro (I margini e il dettato) vai a fondo di questioni importanti per i lettori come per gli scrittori. Sono molto felice di poterne discutere con te.

Angelo Monne

Domande per Elena Ferrante

• Scrivere del mistero artistico è misterioso quanto l’arte stessa, ma tu spieghi in maniera perfetta ciò che ti ha spinta a scrivere e come si è evoluta la tua scrittura. È stata una lettura davvero affascinante, fino a quel glorioso finale con Dante e Beatrice. Quanto è diverso scrivere un libro del genere, rispetto a un’opera di narrativa? Qui sei più consapevole di cercare di “stare nei margini”? Eppure ho l’impressione che anche questo libro raggiunga punte di grande intensità.

• Nel tuo primo saggio/lezione ti descrivi come “pavida” e “timida”, ma i tuoi libri sono molto coraggiosi. Immagino che questo succeda perché, quando scrivi, la te stessa che definisci pavida, senza coraggio, scompare e si trasforma in molte altre. Sono le venti persone di Virginia Woolf? Ho capito bene? Ne parli anche direttamente quando dici che un certo racconto non era stato scritto dalla “me sovreccitata”, bensì da “un’altra me ben disciplinata”. Potresti aggiungere qualcosa di più su queste diverse “me”? Io credo che tutti noi abbiamo diversi io. Chi non ha un temperamento artistico potrebbe semplicemente non esserne consapevole. Ma alla scuola di recitazione, quando avevo sedici anni, l’insegnante ci ha parlato dei diversi io che tutti abbiamo. Era la prima volta che lo sentivo dire, e l’ho trovato (in cuor mio) molto liberatorio.

• Sono contenta che tu abbia citato Virginia Woolf, che, spiegando cosa sia per lei l’atto di scrivere, dice “caccio una mano dentro il sacchetto e tiro su quel che viene”. Per molti anni ho avuto la sensazione che per me scrivere equivalesse a mettere la mano dentro una grossa scatola e cercare di riconoscere le forme che conteneva solo toccandole, senza vederle, limitandomi a tastarle mentre provavo a dargli una sistemazione. Hai anche tu un’immagine di questo tipo per la tua scrittura, o ti ritrovi nell’immagine del sacchetto di Virginia Woolf?

• Tu scrivi: “Per me la scrittura vera è questo: non un gesto elegante, studiato, ma un atto convulso”.

M’interessano molto i due tipi di scrittura che descrivi nella prima lezione. La scrittura che rimane dentro i margini e quella che diventa “quasi un atto convulso”. Potresti dirci qualcosa di più su quando questa trasformazione entra nella scrittura?

Avrei altre domande da farti, ma ho pensato di cominciare a mandarti queste. Se non le consideri adeguate non disturbarti a rispondere, basta che tu me lo dica.

Grazie mille! Non ho mai fatto niente del genere e sono un po’ trepidante.–Elizabeth Strout

Cara Elizabeth,

ti ringrazio per le buone parole a proposito di I margini e il dettato. Ho amato moltissimo le tue Amy e Isabel, i tuoi ragazzi Burgess e naturalmente la formidabile Olive Kitteridge. Ma – devo dirti – tengo al tuo parere su I margini e il dettato soprattutto perché hai scritto Il mio nome è Lucy Barton o, per dir meglio, per il fugace ma memorabile rapporto tra Lucy e la scrittrice Sarah Payne. Mi piace quando la vicenda narrata porta in sé anche il racconto dello sforzo di scrivere con i problemi che scrivere comporta. Ogni volta che, nella vasta produzione letteraria odierna, specialmente femminile, trovo un romanzo con questa specificità, sottolineo i passi che m’interessano e poi lo metto su uno scaffale a parte della mia libreria con l’intenzione di tornarci su. Il tuo Il mio nome è Lucy Barton è lì e sono felice di farne uso adesso, per questa nostra occasione di scambio.

Che cosa mi ha interessata del racconto di Lucy? Un doppio movimento: da un lato lei non ama chi si ritiene, in quanto creatore di versi o prosa o arte in generale, superiore a ogni altro essere umano; dall’altro attribuisce a chi fa poesia con la scrittura o con qualsiasi altro mezzo espressivo compiti enormi. È un doppio movimento che ho riconosciuto anche in me. Non amo gli artisti che s’immaginano sciamani e preferirei che la smettessimo definitivamente con la sacralità dell’alfabeto, che portassimo a compimento la laicizzazione della letteratura, che la finissimo di sentirci, in privato e in pubblico, poco al di sotto degli dèi e da loro direttamente ispirati. È stato a questo fine – lo dico anche per rispondere alle tue domande – che ho isolato la precarissima, incerta “me” che scrive dalle altre “me” più solide, occupate in ruoli privati e pubblici. L’ho fatto per sentire lo scrivere come una funzione non diversa da tante altre, ora piacevole, ora faticosa, ora frustrante. Ed è per questo che ho apprezzato molto la tua Sarah Payne, la scrittrice, quando dice a Lucy: sono solo una scrittrice. Se dovessi sviluppare a modo mio la formula di Sarah direi: sono solo uno dei miei “io”, l’io che scrive. Un io instabile, che a volte c’è, spesso s’inabissa, di frequente si scinde in venti altre persone, le venti di cui parla ironicamente Woolf: una mi trattiene la mano, una mi vuole diligente e accurata, una scava per portare alla luce cose innominabili, una all’improvviso irrompe – non c’è un momento preciso, può non accadere mai – e mi trascina a nominarle, quelle cose, senza rispetto per niente e per nessuno.

Angelo Monne

Certo, anche così, quell’io può sembrare una manifestazione di eccezionalità, seppure sofferta. Da ragazzina, infatti, come te, mi sentivo diversa. Ero quasi muta, o mi esprimevo per timidi monosillabi. Poi però arrivava il mio momento e mi pareva di calarmi un secchio nella testa e tirare su le parole. Le parole portavano con sé il racconto. Più il racconto avanzava, più il secchio andava su e giù a ritmo forsennato dandomi piacere e malessere, più gli altri bambini s’incantavano. Ma ero veramente diversa? No. Basta pensare a quando, nel comune discorso orale, andiamo avanti per frasi sconnesse, o misurando le parole, o con una modalità ironica che ne ricaccia indietro una melodrammatica. Poi inaspettatamente, di colpo, qualcosa rompe gli argini e il discorso dilaga, liberatorio, commosso, appassionato, feroce, finché ci vergogniamo, ci pentiamo, diciamo: non so cosa mi è preso. Be’, che qualcosa – un “io” acquattato nel nostro cervello – ci prenda e ci strappi a un altro “io” prudente, o calcolatore, per trascinarci con sé imponendo il suo ritmo, è esperienza di tutti. Ci è nota, che si sia scrittori o no.

Certo, diverso è quando ciò accade nella scrittura, ma a maggior ragione abbiamo bisogno d’improvvise rotture dei margini. Sono le irruzioni indisciplinate di verità che, quando abbiamo ambizioni alte, motivano la nostra scrittura. La tua Lucy Barton si pone giustamente un obiettivo altissimo, dice: si scrive per far sentire meno sole le persone. La tua Sarah Payne non è da meno, dice: si scrive per riferire della condizione umana. Entrambe, Lucy e Sarah, sottolineano: occorre scrivere con verità, senza proteggere niente e nessuno; o anche: è necessario spogliarsi di qualsiasi pregiudizio, bisogna capire l’altro spingendosi fino in fondo. Ma ecco che allora scatta quel secondo movimento di cui dicevo prima: accantonata la pretesa di superiorità, accantonata l’autodivinizzazione, Lucy e Sara e tutte noi con la passione dello scrivere ci accolliamo comunque i vecchi compiti ad alto tasso di sensibilità e intelligenza, ad alto tasso di specializzazione, ad altissimo tasso di fallimento.

È troppo per noi persone comuni, senza più la vecchia titanica compattezza? La superbia del ruolo, cacciata dalla porta, rientra necessariamente dalla finestra? Insieme all’io che fa versi o prosa o arte in generale, vanno ridimensionate le nostre ambizioni, e scrivere diventerà – è già diventato – trascrivere la trita evidenza?

Una persona a cui voglio bene mi ha detto parecchio tempo fa: “Voi che scrivete, oggi, per quanto vi comportiate con umiltà, sotto sotto non riuscite ad accettare l’idea che non siete onniscienti, che non siete profeti di qualche dio, e che le vostre storielle non possono chiudere nelle loro righe un mondo che sfugge anche a intere squadre di specialisti di tutti i saperi. Rasségnati: se ti va bene, e qualcuno ti leggerà, entrerai a far parte di un settore, tra l’altro abbastanza irrilevante, dell’enorme industria dell’intrattenimento”. Allora non seppi cosa rispondere, oggi lo so ma in modo confuso. Mi piacerebbe sentire te, se ne hai voglia. Hai scritto libri potenti e forse hai le idee più chiare.–Elena Ferrante

Ben ritrovata, Elena,

Quando ho letto la tua domanda mi è subito venuta in mente la poesia di Emily Dickinson Sono nessuno! E tu?

La ricopio qui:

Sono nessuno! E tu?

Sei – nessuno – anche tu?

Allora siamo in due!

Non dirlo! Farebbero rumore, sai!

Che noia – essere – qualcuno!

Che cosa pubblica – come una rana –

dire il proprio nome – un lungo giorno di giugno –

a una palude ammirata!

“Dire il proprio nome…” (come ti ammiro per non avere rivelato il tuo). Ma questa poesia è così fresca, così innocente, in un certo senso. E i versi iniziali sono rimasti con me fin dalla prima volta che li ho sentiti, da bambina, perché è proprio così che mi sento: per fortuna, è proprio così che mi sento. Sono Nessuno!

Ben pochi capiscono questo lato di me; sono stata (credo) accusata di falsa modestia, e invece non è falsa e non è modestia. È solo che, quando scrivo, la persona che tutti vedono, che sono convinti che io sia, scompare, e io divento il testo. E quando riemergo, il mio originario senso dell’io ritorna a essere Nessuno. La gente fatica a capirlo. Secondo me deriva dalla cultura puritana del New England, dove sono cresciuta, che prescrive di non richiamare mai l’attenzione su di sé (anche oggi, quando qualcuno chiede a mia madre se è orgogliosa di me, lei risponde: “No, perché dovrei essere orgogliosa di lei?”. E io in effetti capisco questa sua risposta). E tuttavia credo che non dipenda solo dal mio bagaglio culturale. Mi sembra davvero di non avere quasi un io, anche se so bene di averlo (ricordo che una volta, quando ero adolescente, mia madre mi chiese, con grande irritazione: “Perché non puoi semplicemente essere te stessa?”. E quello che non dissi, ma pensai, fu: ma non c’è solo una me stessa).

Eppure ora dico che sono Nessuno. Perché è così. Però mi rendo conto che non è del tutto vero. Ma non è neppure falso. È proprio questo il punto.

La persona a cui vuoi bene, quella che ti ha parlato del senso di onniscienza degli scrittori, ecco, m’interessa quando dice che “non riuscite ad accettare l’idea che (…) le vostre storielle non possono chiudere nelle loro righe un mondo che sfugge anche a intere squadre di specialisti”.

Francamente, mi piacerebbe pensare che fosse vero. Che gli scrittori facciano proprio questo: chiudere “nelle loro righe un mondo che sfugge anche a intere squadre di specialisti”. Perché scrivo, altrimenti? (è una domanda che vale per me). Se una cosa si può spiegare in qualche altro modo, allora lasciamo stare. Ma voglio credere che quel che scrivo si possa spiegare solo attraverso la storia che sto raccontando.

Ciò significa che sono molto ambiziosa, che, come Lucy e Sarah, parto dal presupposto che posso farcela. E questo è vero. Anche se non so mai se posso davvero farcela, e infatti spesso non ce la faccio. Ma la me che è Nessuno e la persona ambiziosa (io) che cerca di mettere per iscritto cose che non possono essere spiegate da una squadra di specialisti, be’, sono vere entrambe: la Nessuno coesiste in me con la persona ambiziosa.

Per molti anni ho avuto la sensazione che per me scrivere equivalesse a mettere la mano dentro una grossa scatola e cercare di riconoscere le forme che conteneva solo toccandole

Ma quando tu chiedi se le nostre ambizioni vadano ridimensionate, se scrivere diventerà – o è già diventato – trascrivere la trita evidenza, io rispondo senza esitazioni: no! Non dobbiamo ridimensionare le nostre ambizioni, e la scrittura – dio mio, spero la mia scrittura – non diventerà mai una trascrizione della trita evidenza!

Ecco cosa penso: la pressione tra le righe del testo, la pressione che sale da sotto il testo e la pressione che scorre sopra il testo è ciò che conferisce significato alla scrittura, e il non scritto che si trova accanto allo scritto è ciò che permette di andare oltre la spiegazione della squadra di specialisti. Questo è quello che succede quando si esce dai margini (se ho capito cosa intendi), ed è questa la cosa misteriosa a cui miriamo.

La persona a cui vuoi bene ti ha detto: “Rasségnati: se ti va bene, e qualcuno ti leggerà, entrerai a far parte di un settore, tra l’altro abbastanza irrilevante, dell’enorme industria dell’intrattenimento”. Io a questo sono rassegnata. Ma non è una cosa su cui mi soffermo.

Tu dici che allora non sapevi cosa rispondere, e che oggi lo sai ma in modo confuso, e poi mi chiedi cosa ne penso. Ma quali sono le conclusioni a cui sei giunta, nella tua confusione?

Vorrei farti un’altra domanda. Nella terza lezione del libro dici: “Fabbrichiamo finzioni non perché il finto sembri vero ma per riuscire a dire il vero più indicibile, con assoluta fedeltà, attraverso le finzioni”. Sono completamente d’accordo. Ma ora vorrei farti una domanda sulla voce. Ho letto con interesse che per un po’ hai scritto in terza persona. Cos’è che hai trovato così liberatorio nella scrittura in prima persona, che ti ha permesso di “dire il vero più indicibile, con assoluta fedeltà”? Per me, Lucy era la sua voce. E nelle tue opere, le protagoniste sono la loro voce. La riuscita contrapposizione tra Lila e Lenù è un modo brillante di usare la prima persona. Puoi dirmi qualcosa di più su questa scelta di una voce in prima persona, in contrasto con la scrittura in terza persona?

Grazie infinite di questa conversazione.–Elizabeth Strout

Mia cara Elizabeth,

sono contenta della passione che hai messo nel rispondermi, ti ho letta con molto piacere e profitto.

Per esporti il mio punto di vista – non lontano dal tuo, credo – muovo dalla domanda finale. Perché ho abbandonato il racconto in terza persona? Ti do una risposta sintetica per non annoiarti. A un certo punto ho avuto l’impressione che la terza persona – specialmente se usata con grande abilità – fosse un imbroglio. Nella realtà non c’è racconto dell’altro che non sia filtrato da un io. E una terza persona che non abbia in scena esplicitamente il suo narratore mi è sembrata di tentativo in tentativo, come racconto in I margini e il dettato, sempre meno convincente. Per quanto l’amore per gli altri, e il linguaggio in quanto atto d’amore, provino continuamente, insistentemente, disperatamente, ad andare oltre i margini dell’asfittica prima persona singolare, restiamo corpi organicamente chiusi nel nostro isolamento. Perciò – preso atto di questo – mi sono convinta che, per me, è possibile raccontare l’altro con verità solo attraverso un io mentre va a sbatterci contro e nell’urto si sfrangia. E non sono più uscita, finora almeno, da questa prima persona malconcia. Raccontare per me è rifiutarmi di passare oltre, dopo aver urtato almeno con lo sguardo – cito Baudelaire – una passante, un passante.

Qui torno alla tua bella risposta – che farò leggere al mio amico – e innanzitutto alla citazione della poesia di Dickinson, che amo moltissimo. Capisco in che senso usi quei versi. Noi che scriviamo – dici – non siamo altro che gente comune con la nostra piccola vicenda di individui, con le nostre radici storiche e culturali. E quando ci mettiamo al lavoro ci perdiamo nell’alfabeto al punto che combaciamo col nostro stesso filo di scrittura. Ma – tu sottolinei con forza – quel filo di scrittura è e resta pieno di grandi ambizioni, anche se non ci sentiamo abitate da un demone, anche se non siamo oracoli, anche se non ci consideriamo Qualcuno e spesso non abbiamo nemmeno voglia di diventarlo. Anzi – e qui sono io che rincaro la dose – è il nostro stesso ambiziosissimo scrivere a esigere l’accantonamento dell’io anagraficamente definito. Nessuno – il Nessuno di Dickinson, che è assolutamente diverso dall’astuto Nessuno di Odisseo – è (dico ora la mia) il vero nome, forse, di qualunque donna scriva, visto che scrive dal di dentro di una tradizione essenzialmente maschile. Noi cerchiamo di usare al meglio la specificità della scrittura (tu l’hai efficacemente definita). Noi attingiamo alle risorse incamerate nel deposito plurimillenario della letteratura. Noi caliamo il secchio nel nostro normalissimo cervello e tiriamo su parole e memoria. Ma esse ci appartengono poco o niente. Così, se siamo oneste, presto ci smarginiamo dolorosamente negli spintoni permanenti con l’altro e, oltre i margini, cerchiamo con un’ambizione spropositata nomi nostri, oggi. Non ci interessa avere un nome, farci un nome; ci interessa dare nome, ci interessa che la nostra scrittura scavi vie proprie e davvero ci appartenga.

L’amico che ti ho citato dice: fai pure, al massimo contribuirai all’industria dell’intrattenimento. Non ho niente contro l’intrattenimento, se mi permette di restare Nessuno e seguitare a essere solo scrittura. Amo le rane di Dickinson: esse sono l’altro, gli altri, le altre, e mi appassiono alle loro vicende. La nostra scrittura vuole – deve, quando vale la pena – sconcertarsi e sconcertarle. Cosa c’è di male se ci sforziamo di reinventare i cori di giugno finalmente con nostri spartiti e nostre voci? Noi donne siamo Nessuno, ma la nostra scrittura è ambiziosissima come e più di quella di Dante, che era enormemente ambizioso e perciò voleva calarsi in ogni cosa o persona per scavare nel profondo: non a caso ha inventato verbi come inleiare, inluiare, intuare, immiare. Io, come te, cara Elizabeth, sono per il massimo della vera modestia e per il massimo della vera generosa ambizione. Vorrei per tutte le donne che desiderano scrivere una pratica comune di scrittura terremotizia, che provi cioè a causare un tremito innanzitutto a noi stesse e quindi a tutte le forme; una scrittura che racconti quel tremito, il disordine che causa, le composizioni che scompone, lo sforzo di ridisegnare i margini della Storia e di tutte le storie.

Ti ringrazio, ti abbraccio e spero in altre occasioni di scambio.–Elena Ferrante

Elizabeth Strout
è una scrittrice statunitense. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Olive, ancora lei (Einaudi 2020).

Questo articolo è uscito sul Guardian con il titolo “I felt different as a child. I was nearly mute”: Elena Ferrante in conversation with Elizabeth Strout. Il testo di Elizabeth Strout è tradotto da Silvia Pareschi.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1456 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati