Milano, la capitale italiana della moda e della finanza, ha un glorioso teatro dell’opera, la Scala, ma il suo duomo è senza dubbio il punto di riferimento più amato della città. Questa chiesa, però, è anche straordinariamente costosa, perché fin dall’inizio della sua costruzione, nel 1386, ha richiesto una cura continua.

La cattedrale, insieme alle circa 3.400 statue e sculture varie che adornano i suoi innumerevoli angoli, contrafforti, pinnacoli e guglie, è realizzata in un raro marmo rosa estratto da una singola cava sulle pendici delle Alpi, circa cento chilometri a nord della città. La pietra ha caratteristiche fisiche e chimiche che la rendono particolarmente bella, ma la sua splendida colorazione comporta anche un difetto: è molto fragile.

“Il marmo può frantumarsi all’improvviso”, dice Francesco Canali, direttore dei cantieri della Veneranda fabbrica del duomo, l’associazione che dal 1387 si occupa del restauro e della conservazione della chiesa. Le venature del marmo contengono tracce di materiali ferrosi che possono ossidarsi, così come i perni di ferro inseriti nei secoli per tenere insieme i blocchi. Quando si ossidano, si espandono e frantumano il marmo in “piccoli frammenti o perfino scaglie”, spiega il direttore.

Il cambiamento climatico e l’inquinamento complicano la situazione. “L’interazione con l’ambiente ha lasciato segni profondi”, dice Canali. A causa delle ondate di calore senza precedenti delle ultime estati, le differenze di temperatura tra le parti della cattedrale più esposte al sole e quelle in ombra diventano un problema, sottoponendo l’edificio a un ulteriore stress. Inoltre l’ossido di azoto e l’anidride solforosa formano croste nere sul marmo, “come il tartaro sui denti, che può causare le carie”.

Il costo di tutta questa pulizia e manutenzione è sempre stato alto, e di recente la cattedrale, che è “di proprietà dei milanesi”, come ama dire il suo arciprete, il sacerdote Gianantonio Borgonovo, ha cercato più fondi dai privati per coprire una parte delle spese. È nato il progetto Adotta una statua, che propone ai privati di finanziare il restauro di una delle migliaia di statue del duomo e, in cambio, gli permette di averla in prestito per tre anni.

Non c’è margine d’errore

È così che una suggestiva statua di marmo del re Davide che regge un’arpa è finita nell’atrio del quartier generale di un’azienda. Fino al 1960 la statua del re biblico, scolpita nella prima metà del cinquecento da un artista sconosciuto, adornava la cattedrale. Ma dopo essere rimasta abbandonata per anni in un laboratorio, una parte del suo restauro è stata pagata dalla Mapei, un’impresa di Milano che opera nel settore della produzione di materiali chimici per l’edilizia.

“Abbiamo pensato che un’azienda milanese dovesse avere un pezzettino del duomo, ci è sembrato un progetto meraviglioso e simbolico”, dice Veronica Squinzi, amministratrice delegata della Mapei.

Ufficialmente la cattedrale è stata completata 579 anni dopo l’inizio della sua costruzione, nel 1965, e questo spiega il detto milanese “la fabbrica del duomo” per descrivere una cosa che non viene mai portata a compimento.

La continua necessità di marmo per i lavori di riparazione è stata una benedizione per la cava di Candoglia, una frazione di duecento abitanti in Piemonte, che è riuscita a rimanere aperta grazie al suo unico cliente. “C’è sempre molto lavoro”, dice Marco Scolari, che dirige la cava e due laboratori di restauro, uno a Candoglia e l’altro a Milano.

Gli esperti della Veneranda fabbrica monitorano da vicino la salute della struttura grazie a sensori che forniscono misurazioni digitali di vario tipo, “come un elettrocardiogramma continuo”, dice Canali. Inoltre due volte all’anno gli elementi statuari e decorativi della cattedrale vengono esaminati con attenzione da operai specializzati che dondolano sulle gru per cercare eventuali crepe. Nella cava il marmo viene estratto con dei macchinari, ma serve comunque una formazione particolare per chi deve replicare l’intervento manuale di scultori morti da tempo. “L’intervento umano è essenziale”, dice Scolari. Fabio Belloni, un intagliatore del laboratorio di Milano, dice che una volta ha lavorato su un unico blocco della facciata per diciotto mesi. “Devi conoscere il materiale, sapere dove mettere le mani, non c’è margine d’errore”, spiega.

Gran parte delle decorazioni in pietra del duomo risale agli ultimi due secoli, una fase frenetica che seguì il completamento della facciata: Napoleone Bonaparte voleva che fosse conclusa entro il 1805, in modo da avere una scenografia appropriata per la sua incoronazione a re d’Italia. Ai milanesi la facciata non piaceva, ma questo non gli impedì di continuare ad amare la loro cattedrale.

L’opera della Veneranda fabbrica è stata sovvenzionata per anni da donazioni di ricchi cittadini, ma anche da persone di mezzi più modesti che lasciavano cadere in scatole usate dalla fabbrica oggetti di valore da mettere all’asta.

Non più tardi di un secolo fa in cima al duomo c’era un caffè dove i milanesi s’incontravano per socializzare e spettegolare. Sembra che il risotto alla milanese sia nato quando degli operai usarono lo zafferano, che serviva per colorare le vetrate della chiesa, per dare sapore al riso in bianco.

Tocco personale

“Il duomo è sempre stato la casa dei milanesi”, dice Fulvio Pravadelli, il direttore generale della Veneranda fabbrica.

Se santi e martiri hanno dominato per secoli come soggetti decorativi, negli anni gli intagliatori hanno aggiunto figure più contemporanee, tra cui il pugile Primo Carnera, campione mondiale dei pesi massimi nel 1930, e perfino una piccola testa di Abraham Lincoln.

Nel tempo centinaia di statue e motivi sono stati sostituiti e gli originali sono finiti in una sorta di cimitero alla periferia della città.

Per gli intagliatori di pietra di Milano e Candoglia anche la più piccola decorazione – che può richiedere mesi per essere replicata – deve essere eseguita con il massimo impegno. “La bellezza del nostro lavoro è far emergere da un pezzo di marmo qualcosa che prima non c’era”, dice Paolo Sabbadini, un intagliatore del laboratorio di Candoglia. Quando un pezzo che sta replicando è particolarmente consumato, aggiunge un tocco personale alla decorazione, anche se sa che difficilmente sarà notato dalle persone che si trovano decine di metri più in basso. “In teoria non stiamo lavorando per noi stessi”, dice. “L’intaglio deve essere fatto bene anche se non si può vedere, altrimenti non avremmo ragione di essere qui”. ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1502 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati