Blu, rosa, verde, azzurro: tutti i colori sono sordi, sembrano coperti da una patina scura. La pelle dei volti e dei corpi, spesso segnati da cicatrici, tende al bronzo. I toni sono cupi, quasi pieni di rabbia, come prima di un temporale o subito dopo, e creano un insieme sempre contaminato dal nero, in cui convivono i ritratti, di solito dei primi piani, e ampi paesaggi.

Dietro questo universo in tensione c’è Celine Croze, nata a Casablanca, in Marocco, nel 1982. Dopo aver preso un master in arti dello spettacolo in Francia, si è specializzata in cinema all’École supé-rieure d’études cinématographiques di Parigi e all’Escuela internacional de cine y televisión a San Antonio de Los Baños, a Cuba. Poi è tornata a Parigi, dove ha lavorato come prima assistente operatrice in alcuni film tra cui Vulcano di Jayro Bustamante (Orso d’argento al festival di Berlino nel 2015) e Le ereditiere di Marcelo Martinessi (Orso d’argento a Berlino nel 2018), lasciando sempre la fotografia un po’ da parte.

La situazione è cambiata nel 2015 quando, durante le riprese di un lungometraggio in Guatemala, Croze ha sentito che per lei l’immagine fissa poteva essere uno strumento nuovo e interessante con cui esprimersi. Due anni dopo ha seguito uno stage con il fotografo francese Antoine d’Agata, con il quale ha potuto confermare questa intuizione, e così ha cominciato a documentare la sua vita in America Latina.

Tutte le foto: Copyright Celine Croze. Courtesy Galerie Sit Down, Paris et Editions Lamaindonne

L’ultima frase

Il primo libro a cui ha lavorato, intitolato Siempre que, ha come punto di partenza un’intensa avventura vissuta durante le riprese di un film a Caracas, in Venezuela. Il libro si apre con una frase a cui Croze tiene molto: “Siempre que estemos vivos nos veremos”, finché saremo vivi, ci vedremo.

“È l’ultima frase che mi ha detto Yair. Eravamo sull’azotea (il tetto di un palazzo), la foschia avvolgeva Caracas, il rumore folle della città somigliava a un canto funebre. Era come un proiettile nel mio cuore. La consapevolezza che la sua vita fosse in costante pericolo era qualcosa di terribile e di sublime allo stesso tempo. C’era tutto in quelle sue parole: l’urgenza di vivere, il fascino della morte, la crisi del paese. L’estrema violenza e l’assurdità della situazione davano l’impressione che la vita fosse solo un gioco. Mi è tornata in mente la gallina, l’arena dei galli in cui eravamo stati due giorni prima. L’odore del sangue mescolato a quello del rum e del sudore, le grida di rabbia, l’eccitazione degli uomini. Un’estasi impalpabile eccitava l’arena. Come se fossimo tutti pazzi. Come se il sangue, la morte e il potere ci rendessero più vivi. L’energia caotica della città risuonava in ogni combattimento come una danza che si crea, che continua e che piange impotente. Un mese dopo Yair è stato ucciso, aveva 27 anni”.

La sua relazione con Yair le ha permesso di immergersi nella vita della gang

Queste parole scritte da Croze sono il racconto febbrile di una relazione passionale il cui epilogo violento era scritto fin dai primi istanti, come nella tragedia classica.

Tutto è cominciato durante le riprese del film, che si svolgevano in un quartiere pericoloso. Per andare a sistemare l’attrezzatura, Croze passava tutti i giorni davanti ai componenti della gang che controllava il palazzo in cui giravano. I ragazzi cercavano di impressionarla mostrando le pistole e le granate.

Croze si è innamorata dello sguardo di Yair, il capo del Bloque 11, che negli ultimi sette anni non aveva mai lasciato quel palazzo, perché per lui sarebbe stato troppo pericoloso. Avrebbe rischiato la vita a ogni uscita. Ma nonostante le sue precauzioni la polizia alla fine lo ha ucciso lo stesso.

Grazie alla sua relazione con Yair, Croze si è trovata in un universo sconosciuto, che l’ha accettata completamente, e che le ha permesso di avere una libertà totale nel fotografare in modo immersivo la vita dei componenti della gang, spesso a torso nudo, mentre impugnavano le armi e maneggiavano le munizioni, o quando fuori dal palazzo il cielo s’infiammava al tramonto.

Nelle sue immagini ha dato grande importanza alle tonalità e alla precisione delle inquadrature, come ha imparato a fare lavorando per il cinema. L’insieme è un progetto estremamente coerente, in cui cambiano spesso i piani, le distanze e le prospettive, ma dove il colore è l’elemento che tiene insieme questa varietà. Croze ha costruito una narrazione non lineare, basata su immagini sensibili, soggettive, sensuali, mai troppo descrittive e che riescono – indipendentemente dall’estetica proposta – a evitare la trappola della semplice foto a effetto.

Il risultato è talmente più forte dei mezzi usati per ottenerlo, che si dimentica presto la grana, lo sfocato e le deformazioni create dal grandangolo. La successione delle immagini somiglia più a un montaggio intuitivo che alla costruzione di un racconto, in perfetta armonia con il modo in cui sono state scattate le foto.

Nel libro, oltre alla relazione di rara intensità con Yair, Croze ha raccolto altre immagini realizzate in America Latina, dove è tornata spesso. Una delle esperienze che l’ha segnata di più è stata assistere ai combattimenti di galli a Caracas: “In quei momenti vedevo gli animali come degli esseri che danzavano, che cercavano di aggrapparsi al disordine della vita. Ogni volta ritrovavo la stessa sfacciata sensualità. Come una furiosa provocazione o il grido di un adolescente eccitato dal pericolo”.

Croze ha un modo di raccontare la realtà molto vicino a quello che oggi è spesso chiamato documentario soggettivo o post-documentario. Un modo di parlare in prima persona, avvicinandosi a universi che non si tenta di descrivere ma di far sentire e in cui si cercano sensazioni più che spiegazioni o dimostrazioni, che convive perfettamente con un racconto della realtà più rigido, formale, più ispirato alla fotografia documentaria tradizionale.Tutto ciò dà vita a una poesia molto contemporanea, che sulle tracce di Robert Frank, Michael Ackerman e Antoine d’Agata, per citare solo i precursori, si è imposta dalla metà degli anni novanta.

Croze rivendica questa appartenenza: “Nel mio lavoro sono spinta da una pulsione animale, dall’urgenza. Mi capita di vagabondare per giorni alla ricerca di uno sguardo che si è impresso nella mia mente. L’immersione è totale e spesso dolorosa. Mi piace essere il più vicino possibile alle persone, per ‘entrarci dentro’. La fotografia è la trascrizione di una visione e di una sensazione nel momento pre­sente”. ◆ adr

Da sapere
Il libro

◆Il libro di Celine Croze, intitolato Siempre que, è stato pubblicato nel 2022 dalla casa editrice lamaindonne. Ha ricevuto il premio Nadar, il più antico e prestigioso premio francese dedicato ai libri fotografici. Le immagini sono state esposte al Festival du regard 2022 a Cergy, che aveva come tema “la notte”.


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Questo articolo è uscito sul numero 1502 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati