geopolitica

I disordini cominciati alla fine di novembre alle isole Salomone hanno svelato un disagio latente negli stati più piccoli del Pacifico per il peso sempre maggiore della Cina nella regione. Le immagini degli edifici bruciati da cui si levava un fumo denso nella chinatown di Honiara, la capitale dell’arcipelago, hanno eclissato le manifestazioni che chiedevano, all’inizio pacificamente, le dimissioni del primo ministro Manasseh Sogavare. Quando le proteste sono degenerate in violenze e saccheggi, il primo ministro ha chiesto alla vicina Australia d’inviare truppe a sostegno della polizia locale. Il 27 novembre tre cadaveri carbonizzati sono stati rinvenuti in un edificio incendiato.

Se le violenze per il momento si sono placate, le proteste hanno rivelato l’esistenza di una rabbia latente nella popolazione, dovuta anche alla decisione di Sogavare, nel 2019, d’interrompere all’improvviso le relazioni diplomatiche con Taiwan per avviarle con la Cina. Una scelta diventata l’emblema di un governo che non ascolta i suoi cittadini. Il 26 novembre Sogavare, parlando alla tv australiana, ha incolpato dei disordini non meglio specificate “potenze straniere” e ha difeso la scelta di abbandonare Taiwan definendola “una decisione corretta, che colloca le isole Salomone sul giusto versante della storia ed è in linea con le leggi internazionali”. Secondo gli esperti, alla base dei disordini c’è la frustrazione dei cittadini per la mancanza di rappresentanza politica. La mancata comunicazione dell’intenzione d’interrompere le relazioni con Taiwan a favore della Cina a suo tempo aveva già provocato un certo risentimento, racconta Ruby Awa, esperta di diritti umani nelle isole Salomone. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la vicenda di un investitore cinese che ha costruito delle case non a norma e di fatto inabitabili. “Nelle ultime due settimane il governo ha pagato milioni di dollari a quell’azienda cinese”, spiega Awa. “Nel frattempo non abbiamo abbastanza posti letto, medicine o personale sanitario negli ospedali”.

Gestire i rapporti con Pechino è un difficile esercizio di equilibrio per molti stati insulari del Pacifico. La prima ministra delle Samoa, Fiame Naomi Mata’afa, ha abbandonato un progetto da 100 milioni di dollari sostenuto dalla Cina per la realizzazione di un porto, giudicato troppo grande per le esigenze del paese. Nel 2020 il presidente filocinese di Kiribati ha perso la maggioranza in parlamento dopo aver rotto l’alleanza con Taiwan. Nonostante questo, alcuni leader del Pacifico si stanno avvicinando alla Cina a scapito di paesi tradizionalmente considerati benefattori come l’Australia o la Nuova Zelanda. A gennaio la Reuters riferiva che le isole Cook­ si sono rivolte a una banca finanziata dalla Cina per avere un prestito da 20 milioni di dollari. “Oggi è molto più semplice ottenere soldi da Pechino”, ha detto Fletcher Melvin, presidente della camera di commercio delle isole Cook. Quantificare la reale portata dei prestiti della Cina in quest’area può essere difficile. Una ricerca del 2019 del National bureau of economic research statunitense ha rilevato che metà dei prestiti cinesi all’estero sono “nascosti”, cioè non riportati dalle statistiche ufficiali sull’indebitamento o dalle agenzie private di valutazione del credito.

Quanto alle isole Salomone, i cittadini guardano con diffidenza ai rapporti politici che sospettano si stiano sviluppando dietro le quinte. Mihai Sora, ricercatore dell’Aus-Png network del Lowy institute, in Australia, spiega che c’è una frustrazione generalizzata “per quello che, agli occhi dell’opinione pubblica, è un governo segnato da corruzione e nepotismo, incapace di amministrare il paese”. Un particolare elemento di disagio per gli abitanti è rappresentato dalla “diplomazia del libretto degli assegni”. In passato Taiwan era accusata di “offrire incentivi a singoli parlamentari per ottenerne il sostegno”, ma la sua presenza alle isole Salomone era poco significativa. Con lo spostamento verso la Cina, spiega Sora, c’è la sensazione di trovarsi di fronte a una versione estremizzata del vecchio sistema, con la presenza di aziende di stato, operai e manodopera cinesi. Molto probabilmente i nuovi sviluppi non hanno sottratto opportunità agli abitanti del posto, ma “i benefici di queste attività economiche non investono certo la comunità”.

Effetto destabilizzante

I disordini alle Salomone sono stati innescati soprattutto da frustrazioni per questioni interne, ma i loro sviluppi sono osservati con molta attenzione in tutto il Pacifico. “L’effetto destabilizzante che la competizione geopolitica ha sulle società più fragili è evidente negli eventi in corso”, continua Sora. “Un aspetto che non sarà certo sfuggito nella regione”. “La sensazione”, dice Awa, “è che siamo delle pedine in un gioco più grande”.

A Honiara è in corso un’operazione di pulizia a cui stanno partecipando anche la Papua Nuova Guinea e le isole Fiji. Dopo i disordini il primo ministro australiano Scott Morrison ha annunciato l’invio di altri agenti di polizia sull’isola. L’impatto economico per l’arcipelago, che sta già affrontando le conseguenze della pandemia, è notevole. Secondo una valutazione preliminare della banca centrale, a causa dei disordini ci sarà una perdita per l’economia di almeno 227 milioni di dollari. È probabile che il danno subìto da Honiara, che produce quasi il 30 per cento del pil nazionale, annulli le stime di una crescita dello 0,4 per cento per il 2021. Gli abitanti della capitale sono alle prese con carenza di viveri e forti ritardi nel pagamento dei salari. Devono inoltre bollire l’acqua perché non viene più depurata. In città si respira un’atmosfera di disperazione nel silenzio più totale dei leader politici. Anche se i soldati arrivati dall’Australia sono d’aiuto, la presenza di truppe straniere solleva un altro interrogativo: “Dov’è finita la nostra sovranità?”, si chiede Awa. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1438 di Internazionale, a pagina 39. Compra questo numero | Abbonati