In qualche oscuro recesso della mia presenza online conservo una bacheca virtuale che si chiama Nostalgia. Le immagini che raccoglie sono come fotogrammi sparpagliati di un film sulla mia infanzia: una bambola con i capelli legati in una grossa coda di cavallo; un raccoglitore A4 con la copertina psichedelica; modelle con i moon boot che sfilano nella pagina centrale di un giornale per adolescenti del 1996; un paio di scarpe Oxford di pelle marrone con le punte dei lacci arrotolate a forma di cavatappi.
Per anni ho provato una sottile forma d’imbarazzo ogni volta che aggiungevo un’immagine alla bacheca. Riguardare quelle vecchie immagini – ognuna colma di significati emotivi – mi sembrava una cosa sfacciatamente frivola. A cosa serviva vedere oggi le copertine dei miei libri di quand’ero una ragazzina? Cosa speravo di ottenere annusando la fragranza immaginaria degli adesivi profumati che la maestra della prima elementare mi attaccava sui compiti?
La nostalgia è una solida rampa di lancio per il futuro. Non solo ci fornisce un’ancora mentale e fisica quando il paesaggio cambia, ma ci fa concentrare su ciò che per noi è più prezioso
Eppure non riuscivo a smettere. Ogni piccola immagine era un invito a cavalcare una specie di scia mentale a cui restare attaccata. Persa nei vortici della memoria, entravo in un fluire che mi faceva sentire fuori dal tempo ma perfettamente consapevole del suo passaggio.
Ciò che mi tormentava dopo, oltre alla vergogna di aver sprecato ore di lavoro, era che non riuscivo a capire perché ero così determinata a scandagliare il mio passato. Ho cominciato a leggere una serie di studi sperimentali sulla nostalgia (mi sembrava una cosa più produttiva che farmene travolgere) e sono arrivata a una conclusione che non mi aspettavo. Secondo gli studi, i miei viaggi nostalgici non servivano a cullarmi in uno stato di stordimento virtuale, ma a rafforzare la mia stabilità interiore e – addirittura – a prepararmi a cogliere nuove opportunità che non avevo ancora immaginato.
A lungo derisa come una specie di stampella a cui ci appoggiamo quando il fascino del presente sbiadisce, la nostalgia è in realtà una solida rampa di lancio per il futuro. Non solo ci fornisce un’ancora mentale e fisica quando il paesaggio cambia o sprofonda, ma ci fa concentrare con l’immediatezza dei sensi su ciò che per noi è più prezioso e, per estensione, ciò che vogliamo proiettare nel mondo. Ecco dov’è il suo potere trasformativo.
Questo senso di disprezzo per l’esplorazione dei meandri del nostro passato ha una tradizione secolare. La parola “nostalgia”, coniata nel seicento dal medico svizzero Johannes Hofer, è composta dalle parole greche nostos (ritorno) e algos (dolore). Il sottinteso è che le riflessioni sul passato sono segnate dalla sofferenza. Hofer usava il termine per descrivere una presunta malattia riscontrata nei soldati mercenari svizzeri che si struggevano per la loro patria. Era convinto che i sintomi della malattia – tra cui attacchi di pianto e perdita di appetito – fossero causati dalla “vibrazione degli spiriti animali attraverso quelle fibre del mesencefalo in cui resiste ancora l’idea di patria”.
La reputazione della nostalgia non migliorò in epoca vittoriana: i medici la definivano un disturbo psichiatrico contraddistinto dalla riflessione su tempi e luoghi che non possono essere rivisitati. La patologia, secondo gli psicanalisti, nasceva da un desiderio represso di regredire alle prime fasi della vita.
Solo anni dopo la nostalgia cominciò a essere vista con un’aura più calda e soffice. Il romanzo Alla ricerca del tempo perduto (1913-27) dello scrittore francese Marcel Proust, in cui il narratore assaggia una madeleine (un tipico dolcetto francese) che sprigiona un torrente di memorie, ebbe il grande merito di umanizzare l’atto del ricordare a distanza di tempo. Ma se per la maggior parte dei critici la nostalgia non era più una patologia, molti continuavano a considerarla un vezzo inutile. In un numero del 1993 di The Baffler, lo scrittore e giornalista Tom Vanderbilt scriveva in tono sprezzante: “La nostalgia è un esercizio in cui la giusta iconografia visiva e la percezione di qualcosa di autentico possono creare il desiderio di un’esistenza che non è più possibile e che in realtà non è mai stata possibile”.
Di lì a poco questi moniti sarebbero stati travolti da un movimento nostalgico cresciuto sui social network. Alimentato da sconsolati millennial alla ricerca di un portale d’accesso a un tempo più semplice, oggi questo movimento delinea i contorni dell’economia online. Titoli come “cose degli anni cinquanta che solo chi è stato bambino negli anni ottanta può capire” ottengono più clic delle notizie dell’ultim’ora. E gli inserzionisti sfruttano bacheche online come la mia per vendere prodotti rétro a generazioni che hanno adottato il passatempo del ricordare il passato decenni prima del previsto.
Tra l’infuriare della pandemia, l’instabilità politica, i problemi relazionali e l’altalena dei mercati finanziari, è fin troppo facile vedere la clamorosa popolarità della nostalgia come la prova del rifiuto di confrontarci con le calamità dei nostri giorni. La realtà che descrivono gli psicologi, tuttavia, è più interessante e sfumata: ci tuffiamo nel passato proprio per sentirci abbastanza solidi da affrontare le sfide del presente.
Ancorandoci alla nostra storia, la nostalgia contribuisce a formare un senso coerente d’identità che è la forza stabilizzante di cui abbiamo bisogno per affrontare i problemi, sia personali sia universali. Per esempio, nel contesto di una relazione violenta, “la vittima può interiorizzare il comportamento dell’aggressore arrivando alla conclusione: ‘non sono degno di essere amato’”, spiega la psicologa Krystine Batcho del Le Moyne college dello stato di New York. Ricordare tempi più felici può capovolgere questo copione tossico. “Guardandosi indietro”, continua Batcho, “può dire: ‘un momento. C’erano persone che mi trattavano con rispetto e dignità’”.
Ciò spiega anche perché immergersi nei ricordi e nella nostalgia aiuta le persone a rafforzare il proprio senso di appartenenza e ad avere più fiducia nel proprio potenziale. “La nostalgia”, sostiene Andrew Abeyta, psicologo della Rutgers University nel New Jersey, “rende le persone più ottimiste in generale sul fatto che le cose andranno bene”.
Questo ottimismo è rafforzato dal fatto che la maggior parte delle persone rievoca più facilmente i ricordi positivi che quelli negativi, una distorsione che gli psicologi chiamano “sindrome di Pollyanna”. Secondo un rapporto della University of Southampton nel Regno Unito, quando raccontiamo storie nostalgiche usiamo un linguaggio più ottimistico rispetto a quando parliamo di eventi quotidiani.
Questa visione rosea del passato ci aiuta a controbilanciare i commenti e i giudizi corrosivi che dobbiamo affrontare nella vita di tutti i giorni. Se sul lavoro il nostro capo ci dà una valutazione negativa, inevitabilmente nel nostro cervello si accumuleranno i cattivi pensieri: non sono abbastanza bravo, faccio sempre casino. Ma se con la mente torniamo a tutte le volte in cui abbiamo centrato un obiettivo e ci siamo sentiti più bravi, quei ricordi possono compensare i dubbi che ci troviamo ad affrontare nel presente. Esistono prove biologiche di questo effetto di bilanciamento: uno studio sul cervello della North Dakota state university mostra che le divagazioni nostalgiche attutiscono il contraccolpo percepito degli eventi negativi.
Un altro effetto della nostalgia è quello di spingerci a cercare il contatto con gli altri in modo da rafforzare la nostra salute e il nostro benessere. In uno studio, Abeyta e i suoi collaboratori hanno chiesto a un gruppo di volontari di rievocare un ricordo nostalgico e a un secondo gruppo di riflettere su un evento quotidiano. Dopo l’esperimento, i volontari del primo gruppo spesso riferivano di voler stare con altre persone. Molto probabilmente, dice Abeyta, perché rievocare vecchi ricordi ci riporta alla mente i momenti in cui ci siamo sentiti realizzati in compagnia degli altri e questi ricordi ci spingono a credere che possiamo raggiungere risultati sociali simili in futuro.
“Uno dei metodi che noi psicologi usiamo per provare a rafforzare il senso di fiducia dei pazienti è creare delle esperienze che li aiutino a capire che possono avere successo”, osserva Abeyta. “Sono gli stessi pazienti a rievocare queste relazioni particolarmente felici: ‘Be’, in effetti in quest’ambito sociale ho avuto successo’”. Questo tipo di riflessione può spingerci a creare una rete sociale di sicurezza che ci aiuta a combattere la solitudine e i problemi di salute.
Soprattutto, la nostalgia offre un punto d’appoggio quando sembra che non ci siano altri appigli. In una nuova cura per la demenza chiamata terapia della reminiscenza, gli specialisti usano foto, oggetti o brani musicali per stimolare conversazioni e riflessioni sui ricordi più profondi dei pazienti. Una revisione degli studi sulla terapia della reminiscenza ha confermato che questo approccio ha effetti positivi sulle risposte cognitive, sulle capacità comunicative e sull’umore dei pazienti, anche se gli autori, della Bangor university in Galles, sottolineano la necessità di sottoporre la terapia a test controllati.
Che i nostri ricordi risalgano a ottant’anni fa o solo a venti, gli episodi che riaffiorano alla memoria servono come una sorta di test di Rorschach che rivela quello che per noi è importante e il tipo di esperienze che amiamo. Se ricordiamo con gioia le feste di compleanno da McDonald’s, probabilmente è perché ci piace la sicurezza di una grande e socievole comunità; i ricordi dei disegni con i gessetti fatti insieme a un’amica, invece, sono la spia di un desiderio di legami più profondi e duraturi. “Le esperienze non sono solo ciò che ci succede”, scrive Batcho. “Sono la materia prima che usiamo per modellare la nostra identità, il nostro io”. La nostalgia, quindi, è un mezzo per recuperare quella materia prima, per entrarci in contatto come se affondassimo le mani nell’argilla.
Questo contatto ancestrale con ciò che ci anima può aiutarci a ritrovare fiducia nel significato della nostra vita. Il gruppo di lavoro di Clay Routledge, uno scienziato comportamentale della University of North Dakota state, ha sottoposto due gruppi di studenti universitari a un esperimento: al primo gruppo ha chiesto di rievocare un ricordo nostalgico, al secondo ha chiesto di pensare a un evento futuro desiderato. Dopo il test, chi faceva parte del primo gruppo era più portato a pensare che la sua vita fosse ricca di significato. In realtà, è difficile stabilire un collegamento chiaro tra certi oggetti “nostalgici” – inevitabilmente ordinari, frivoli e consumistici – e il profondo senso di pienezza descritto nella ricerca. È chiaro che quando rispolvero un vecchio annuario scolastico con le foto, le didascalie e le dediche, riporto in vita i ricordi di un mondo che mi sono lasciata alle spalle. Ma l’ossessione nostalgica per Donkey Kong o per My little pony sembra avere meno a che fare con gli aspetti essenziali dell’io.
Tuttavia, come aveva perfettamente capito Proust, ogni punto di riferimento nostalgico – che sia un odore, un prodotto o il pezzo di una canzone – evoca un mondo interiore a sé stante, squisitamente ricco di dettagli. Il ritornello di Smoke on the water dei Deep Purple (1972) o la Cabbage Patch con il cuore disegnato sulla guancia con il pennarello sono pura sineddoche, sono un frammento che rappresenta un universo che non c’è più: i personaggi che lo popolavano, i valori che esprimeva, le emozioni che lo pervadevano. Come la madeleine di Proust era la porta d’accesso al mondo perduto dell’autore, un muffin al mais mi riporta alla mente lo stato di New York quando avevo quattro anni e facevo dondolare le gambe al bancone del ristorante mentre mio padre ordinava toast al mais per colazione. L’oggetto della nostalgia non è importante in sé e per sé, è importante perché è il tramite per una serie di luoghi del pensiero e delle emozioni ai quali altrimenti non potremmo accedere. Evocando un senso di sicurezza, di fiducia in sé e di significato, la nostalgia getta le basi per una crescita personale profonda, dandoci la forza di avventurarci oltre i nostri confini fisici e psicologici. Forti della consapevolezza di poter fare ritorno alla nostra Itaca interiore ogni volta che lo vogliamo, siamo più pronti a espandere i nostri confini o ad abbatterli del tutto.
Per verificare questa teoria, gli psicologi Matthew Baldwin e Mark Landau della University of Kansas hanno chiesto a un gruppo di volontari di pensare a un evento passato che suscitasse in loro un senso di nostalgia. Poi li hanno testati domandandogli se fossero d’accordo con affermazioni come: “Non ho paura di confrontarmi con persone, eventi e luoghi sconosciuti”. I risultati hanno confermato che i soggetti nostalgici avevano un maggior senso di appartenenza e più fiducia nel loro potenziale. “La nostalgia”, scrivono i ricercatori, “è una risorsa psicologica che conserva e ricicla, attraverso ricordi di eventi reali, una serie di emozioni positive che ampliano e sviluppano le possibilità del pensiero-azione”.
L’influenza positiva della nostalgia è fondamentale nei periodi più cupi della nostra vita. Nell’abisso di Auschwitz, lo psichiatra ebreo Viktor Frankl riportava continuamente alla mente il pensiero della moglie per ricordare a se stesso che, nonostante l’inferno che stava attraversando, esistevano ancora relazioni umane appaganti. Il ricordo di tempi più felici e delle emozioni positive collegate a quei momenti lo aiutava a sopravvivere tra le privazioni, i lavori forzati e le epidemie di tifo.
Il trionfo esistenziale che Frankl descrive nel suo libro di memorie L’uomo in cerca di senso (1946) – la capacità di condurre un’esistenza significativa, addirittura felice, nelle peggiori condizioni possibili – è legato alla capacità di ricordare episodi gioiosi del suo passato:
In uno stato di totale desolazione, quando la sua unica missione consiste nel sopportare le sue sofferenze nel modo giusto, l’uomo può, attraverso l’amorevole contemplazione dell’immagine che porta della sua amata, raggiungere l’appagamento.
Anche chi si batte per una giusta causa spesso si abbandona alla nostalgia quando si prepara ad affrontare imprese che per molti sarebbero proibitive. Leggendo i diari dei cittadini ucraini che parteciparono ai movimenti di resistenza durante la seconda guerra mondiale, Batcho osserva che la riscoperta dei valori del passato spinse molti di loro a intraprendere una battaglia per la libertà che non aveva alcuna garanzia di successo.
Entrata giovanissima nella resistenza, Luba Komar ricorda la sua infanzia in un paesino dell’Ucraina. “Giocavamo, ballavamo e cantavamo canzoni”, racconta a sua figlia Christine Prokop in Scratches on a prison wall (Graffi sul muro della prigione, 2009). “Le donne portavano i loro arcolai e si sedevano in cerchio, filavano la lana e cominciavano a raccontare”. Molte canzoni e storie parlavano della libertà e dell’eroismo di chi si batteva per conquistarla, e durante la guerra Komar si aggrappava a questi ricordi mentre cercava di sopravvivere agli agguati, agli interrogatori e alle minacce di morte.
La nostalgia può aiutarci nelle fasi di crescita anche se le nostre prove più dure non sono paragonabili a quelle di Komar o Frankl. Qualche tempo fa ho superato un periodo di grave depressione rileggendo dei vecchi libri di Scott Peck sulla dedizione alla verità, parlando con una mia vecchia amica del liceo e ripensando alla mia amata nonna. Questi ricordi sono stati la mia ancora sia tra le acque agitate della guarigione sia anni dopo, quando per la prima volta ho parlato apertamente della mia malattia sperando di creare un piccolo approdo per chi, com’era successo a me, si sentiva esiliato da se stesso.
Questa nostalgia che ci dà sicurezza e ci fa crescere è quella che Batcho chiama “nostalgia personale”. È la nostalgia proustiana: la scia di uno specifico ricordo che ripercorriamo nella nostra mente quando ne sentiamo il richiamo. Quando però questa scia si allarga e diventa un’autostrada – quando cioè la nostalgia si trasforma da personale in dogmatica e collettiva – può facilmente diventare tossica. Lo vediamo negli strepiti di popolazioni ingrigite che vorrebbero ripristinare un paesaggio culturale uniforme in cui i sistemi di valore venivano tramandati, immutati, come i diritti di nascita. Questi movimenti, con i loro echi di “sangue e terra”, non si nutrono della memoria personale, ma degli ideali astratti di un passato che forse in realtà non è mai esistito.
Questa sottospecie velenosa di nostalgia nasce quando si cerca di spacciare una visione edulcorata del passato a una platea di fedeli. La nostalgia ci offre “dei benefici al livello individuale perché ci permette di reimpossessarci del nostro passato”, osserva Frank McAndrew, psicologo del Knox college in Illinois. “Ma se da questo si passa all’idea che ‘prima tutto era meglio’, allora la nostra nostalgia diventa un’imposizione sugli altri”. In queste condizioni, la nostalgia collettiva rischia di alimentare il fuoco del fondamentalismo religioso.
La nostalgia può essere fonte di pregiudizi anche quando privilegia le norme di gruppo. In uno studio, gli psicologi Constantine Sedikides e Tim Wildschut della University of Southampton hanno provato a stimolare la nostalgia collettiva di un gruppo di studenti greci chiedendogli di scrivere o leggere un saggio sulla musica e le tradizioni culturali greche. Dopo l’esperimento gli studenti dicevano di sentirsi ancora più legati alle loro radici culturali e di apprezzare di più i programmi tv e i prodotti di consumo greci. Ma c’era un rovescio della medaglia: era aumentato anche il loro disprezzo per i cibi e i prodotti non greci.
Con la nostalgia collettiva, osserva Batcho, “si crea un meccanismo di inclusione ed esclusione: ‘Voglio che le cose tornino com’erano prima e cerco persone che la pensano come me”‘. Chiunque minacci questo obiettivo diventa un escluso. La nostalgia personale, al contrario, è eccentrica, sostanzialmente apolitica e dunque poco incline al pregiudizio. In uno studio, alcuni volontari hanno riportato alla mente un episodio in cui si erano divertiti con una persona sovrappeso; dopo il ricordo, il loro atteggiamento complessivo nei confronti delle persone in sovrappeso era diventato più positivo.
A differenza del richiamo collettivo al passato, il ricordo personale ci mette in contatto con le nostre fondamenta dall’interno. Facendo appello alle nostre qualità più forti ed elementari, la nostalgia ci prepara a superare gli ostacoli, a perseverare di fronte alle difficoltà e ad avventurarci oltre ciò che conosciamo. E nonostante gli avvertimenti di Hofer, l’overdose di ricordi non deve preoccuparci troppo: la maggior parte di noi sa intuitivamente quando smettere.
“La parte agra dell’agrodolce”, dice Batcho, “la tristezza che proviamo quando pensiamo a cose che non torneranno più dev’essere sufficiente a spingerci a uscire dal nostro sogno a occhi aperti”. McAndrew concorda: “È una questione di equilibri: dobbiamo farci avvolgere da quella sensazione calda e soffice senza lasciarci travolgere. Non dobbiamo abitarci, siamo solo in visita”.
Per quanto mi riguarda, non mi sento più in colpa per la mia bacheca della nostalgia; so che quella che potrebbe sembrare un’occupazione senza senso serve a farmi trovare stabilità e a motivarmi nei momenti d’incertezza. Eppure sento l’esigenza di andare più in là, di spiegare cos’è che fa scattare i miei interruttori della nostalgia. In che modo le mie personali madeleines – una fascia degli scout, una foto di famiglia nel giorno del ringraziamento – riflettono i miei obiettivi o le mie convinzioni?
Anziché lasciarmi guidare dalla nostalgia voglio imparare a dominarla. Come Proust, voglio usarla per guardare gli arazzi lontani della mia vita passata, scegliere i fili più integri e seguirli mentre mi avventuro nell’ignoto. Nelle parole di Proust:
L’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto.
Il tè l’ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente quella stessa testimonianza che io non riesco a interpretare e che vorrei almeno potergli chiedere di nuovo e ritrovare intatta, a mia disposizione, tra poco, per una spiegazione decisiva. ◆ fas
Elizabeth Svoboda
è una giornalista scientifica. Questo articolo è uscito su Aeon con il titolo The bittersweet madeleine.
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Questo articolo è uscito sul numero 1364 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati