Probabilmente il teatro più bello è proprio quello che fa cadere le maschere, che si spoglia per offrire l’essenza di un’esperienza umana, in una condivisione intima con lo spettatore. Ma una cosa del genere può essere realizzata solo da un maestro. Peter Brook aveva saputo seguire questa strada, progredendo sempre più verso una semplicità magistrale. Oggi Joël Pommerat ha deciso di fare lo stesso: l’autore-regista, famoso e premiato molte volte per le sue opere di grande bellezza, torna con uno spettacolo (ma ci possiamo chiedere se questo sia il termine adatto) di una semplicità radicale e sorprendente.

Amours (2), che si può vedere al Pavillon Villette a Parigi e che poi sarà in tournée nel resto della Francia, è un progetto nato in condizioni particolari che hanno costretto Pommerat a spingere oltre ogni limite la sua ricerca di un teatro del reale, in cui sono fondamentali la presenza, il presente, il rapporto e la relazione con gli altri. Di fatto lo spettacolo è il frutto del lavoro che l’artista conduce, ormai da quasi dieci anni, con i detenuti del carcere di Arles.

Ritorno all’essenza

Da questo impegno sono già nati tre opere: Désordre d’un futur passé, nel 2015; Marius, tratto da un testo di Marcel Pagnol in collaborazione con Caroline Guiela Nguyen, nel 2017; e Amours (1), nel 2019. Per questo terzo lavoro Pommerat aveva dovuto adattarsi, perché la direzione del carcere gli aveva chiesto di pensare a un allestimento più leggero e meno vincolante. In effetti i due spettacoli precedenti, con le loro imponenti scenografie e con il complesso materiale tecnico, avevano richiesto troppi sforzi al personale dal punto di vista della logistica e soprattutto della sicurezza.

“Questo tipo di vincoli ci ha spinto a tornare a un teatro ridotto all’essenziale nella messa in scena”, racconta Pommerat, che ha deciso di fare a meno di tutto – della scenografia, delle luci, del suono, dei costumi e degli accessori – e di usare solo un paio di sedie piazzate nella sala destinata al teatro dell’istituto penitenziario di Arles.

Così è nato Amours (1), composto a partire da frammenti di tre suoi precedenti lavori: _Cet enfant _(2006), _Cercles/Fictions _(2010) e _La réunification des deux Corées _(2013).

Nel 2020 Jean Ruimi, il detenuto di Arles che ha avuto un ruolo centrale in tutto il progetto, è stato liberato e Pommerat gli ha proposto di entrare nella Compagnie Louis Brouillard. Il regista ha avuto voglia di far rivivere Amours (1) fuori dal carcere, riproducendo le stesse condizioni di lavoro e di messa in scena usate all’interno.

La réunification des deux Corées (Christophe Raynaud de Lage, Hans Lucas/Contrasto)

Amours (2) è quindi una nuova versione del primo spettacolo, creato con due detenuti scarcerati da poco – Jean Ruimi e Redwane Rajel, che avevano lavorato nella prigione del Pontet, nel dipartimento della Vaucluse, con Olivier Py – e tre attrici professioniste: Elise Douyère, Roxane Isnard e Marie Piemontese.

In questo caso l’amore di cui si parla non è altro che una ferita, che si tratti di relazioni tra partner, familiari o amici. I dieci frammenti scelti da Pommerat sono altrettante situazioni critiche, vere e proprie esplosioni in cui delle persone cercano, tra grida e sussurri, di dire una verità che si nasconde a chi è incapace di sentirla. Pensiamo alla famosa frase di Jacques Lacan: “L’amore è dare quello che non si ha a qualcuno che non lo vuole”.

Così un uomo si confronta con suo padre, che gli rimprovera una mancanza di autorità nei confronti del figlio giovane, e questo riporta a galla tutta la violenza della sua educazione, fino alla deflagrazione: “Papà, tu non mi hai educato, mi hai formattato. Mi hai addestrato, mi hai traumatizzato fin nel profondo. Ancora oggi quando parliamo come due adulti, ho paura di te”.

Una donna lascia il suo compagno, senza grida, senza alcun preavviso, suscitando l’incomprensione del suo partner: “L’amore non basta”, non può far altro che rispondere ossessivamente la donna, senza fornire altre spiegazioni.

Giù le maschere

Ecco invece due amiche, che ricordano i primi tempi della loro amicizia: una delle due comincia a dire all’altra che all’inizio la trovava arrogante e insopportabile, con il risultato di provocare la rottura del loro rapporto. O ancora una ragazza che si sente incapace di amare e di crescere il figlio, e che perciò lo offre, letteralmente, a una coppia che non ha potuto averne.

In un’altra scena un uomo cerca di mantenere il legame con la moglie colpita dall’alzheimer, una malattia che ha disintegrato non solo i contorni della sua identità, ma anche quelli della loro storia d’amore.

Tutte queste situazioni Pommerat le fa recitare ai suoi attori in uno spazio che non ha nulla di teatrale: una semplice sala in cui gli spettatori sono seduti su delle sedie o per terra, intorno al palcoscenico. Questa fluidità, questa porosità, questa vicinanza tra loro e noi rappresenta l’elemento chiave di Amours (2), cioè la possibilità di offrire un’esperienza in cui nessuno può barare: né gli attori né gli spettatori, che sono nello stesso spazio, nella stessa luce.

Gli interpreti sono eccezionali in questa recitazione ridotta all’essenziale, che cerca il più possibile di fare a meno delle maschere, nella ricerca della pura verità e della pura presenza. La scrittura, crudele ma non priva d’ironia, di Pommerat si esprime così in tutta la sua intensità. Ed è questo l’elemento geniale di questo teatro ridotto all’osso, che non offre alcuna distrazione rispetto a quello che è recitato e detto davanti a noi: operare attraverso l’arte teatrale un ascolto dell’altro, che i personaggi rappresentati nello spettacolo sono incapaci di realizzare nonostante i loro sforzi dolorosi.

Amours (2) provoca lo stesso turbamento, la stessa sorpresa degli altri spettacoli realizzati da Pommerat negli ultimi anni, con messe in scena formalmente molto più sofisticate. Alla fine si è ancora una volta profondamente sconcertati, come raramente succede a teatro. E questo nonostante il pessimismo del tema: secondo Pommerat l’amore felice è tanto probabile quanto la riunificazione delle due Coree. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1508 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati