Una volta nei boschi del Nordafrica c’erano i leoni. Erano belli, grandi e forti. In Algeria, sui monti Aurès, centro della resistenza durante la guerra d’indipendenza, gli ultimi avvistamenti risalgono agli anni cinquanta e sessanta del novecento. Da allora il leone dell’Atlante (Panthera leo leo) è stato dichiarato estinto in natura e gli zoo hanno cercato di portare avanti dei timidi tentativi di conservazione. La morte degli esemplari selvatici è già stata una perdita considerevole per la biodiversità e il patrimonio culturale, ma oggi questi animali rischiano di scomparire anche in cattività. Quindi per sempre.

Nel 1925, durante un viaggio in aereo da Casablanca a Dakar, il fotografo Marcelin Flandrin, nato in Algeria da genitori francesi, scattò l’ultima immagine conosciuta di un leone dell’Atlante, che prende il nome dalla catena montuosa marocchina, uno dei suoi habitat. Nella foto l’animale – chiamato anche leone di Barbaria, berbero, o più in generale nordafricano – incede maestoso e solitario in un paesaggio desertico, in mezzo a un rilievo roccioso. Vediamo le sue impronte sulla sabbia che man mano si cancellano, come in un simbolico addio.

Il leone dell’Atlante è speciale, sostiene Brahim Haddane, presidente del comitato marocchino dell’Unione mondiale per la conservazione della natura (Iucn) ed ex direttore dello zoo di Té­mara, vicino a Rabat, la capitale del Marocco. Il fatto che gli esemplari di questa sottospecie siano rimasti isolati dai leoni che vivono a sud del deserto del Sahara gli ha permesso di sviluppare alcune caratteristiche singolari: il fisico imponente, gli occhi gialli e la tipica criniera lunga e scura, che arriva fino alle spalle e all’addome, adatta alle temperature invernali. Anche se siamo abituati a pensare ai leoni dell’Africa orientale, che vivono nelle savane, il leone dell’Atlante abitava in foreste temperate in cui c’era una grande varietà di ecosistemi.

Un regalo impegnativo

In passato una delle più grandi concentrazioni di leoni dell’Atlante si trovava nello zoo del sultano del Marocco. C’era un nutrito parco di questi felini all’interno del palazzo, e occasionalmente i prigionieri politici gli venivano dati in pasto. A partire dal seicento, le tribù e i corpi di spedizione cominciarono a offrirli in dono al sultano, che ampliò la sua collezione. I leoni erano una risorsa diplomatica e, come tali, viaggiavano anche fuori del continente.

Nel 1839 il sultano marocchino Moulay Abd al Rahman regalò una coppia di leoni al presidente degli Stati Uniti Martin Van Buren, facendoli portare al consolato statunitense a Tangeri. Si creò una situazione imbarazzante perché ai presidenti statunitensi è vietato accettare pagamenti o regali dall’estero. I leoni rimasero all’interno del consolato fino a quando non si decise di trasportarli in Pennsylvania per metterli all’asta. All’inizio del novecento si trovavano ancora alcuni di questi leoni in vari zoo statunitensi, come quello del Bronx, a New York.

Dopo l’esilio del re Mohammed V dal Marocco negli anni cinquanta, la proclamazione dell’indipendenza dalla Francia e l’incoronazione di re Hassan II, alla fine degli anni sessanta i leoni del palazzo reale furono trasferiti in quello che sarebbe diventato lo zoo di Rabat, dov’è in corso ancora oggi un programma per evitarne l’estinzione.

A partire dagli anni settanta l’interesse scientifico per il leone, insieme al sostegno finanziario delle autorità marocchine e dei conservazionisti, portò a una classificazione degli attributi fisici del leone dell’Atlante con l’obiettivo di promuovere un programma di riproduzione per ridurne l’ibridazione. Una rete di zoo negli Stati Uniti e in Europa che ospitava i leoni provenienti dalla collezione reale marocchina si organizzò per studiarli, catalogarli e tutelarli.

Negli anni novanta fu lanciato l’Atlas lion project, un piano ventennale con l’obiettivo di reintrodurre questi felini in natura. Il progetto prevedeva varie fasi, la prima delle quali consisteva in una serie di test del dna per far corrispondere la classificazione fenotipica (l’aspetto esteriore) con quella genotipica (la genetica) in vista di un allevamento selettivo. Successivamente, bisognava scegliere un posto dove reintrodurli in uno stato di semicattività. Quindi si sarebbe ripopolata l’area con altre specie e prede, per poi mettere in libertà i leoni. Infine, si dovevano monitorare i felini, e contemporaneamente sviluppare delle forme di ecoturismo a beneficio delle comunità locali. Gli esami sul dna, condotti dal ricercatore Nobuyuki Yamaguchi, che all’epoca lavorava all’università britannica di Oxford, fecero capire meglio le connessioni tra i leoni ospitati negli zoo e servirono a compilare uno studbook, un albero genealogico dei leoni in cattività. Fu individuato un sito di diecimila ettari vicino ad Azilal , tra le montagne dell’Atlante marocchino, scarsamente popolato e corrispondente all’habitat storico di questi animali, ma anche di altri grandi felini, come i leopardi. Tuttavia la Wildlink International, il gruppo angloamericano che finanziava il progetto, si ritirò dopo lo scoppio della guerra del Golfo e tutto si bloccò.

L’Atlas lion project è quindi fermo dagli anni novanta. Nel frattempo alcuni zoo hanno perso interesse. Senza un chiaro obiettivo finale di ripopolamento, per queste istituzioni è costoso ed eticamente discutibile mantenere i loro piccoli branchi di leoni dell’Atlante, soprattutto dopo che alcune nuove ricerche scientifiche li hanno categorizzati come una sottospecie settentrionale del leone africano e non come una specie a sé, diversamente da quanto si era a lungo pensato.

Fuori dai recinti

Eppure il leone dell’Atlante rappresenta molto di più: per gli abitanti del Nordafrica è un simbolo popolare e unificante, una figura onnipresente nella vita quotidiana che continua a plasmare la loro cultura. In Marocco la nazionale di calcio prende il nome da questo animale e nello stemma del paese ci sono due leoni. Nel 1930 nella città marocchina di Ifrane (“grotta” in tamazight, la lingua berbera) l’artista francese Henri-Jean Moreau scolpì in un blocco di roccia la figura di un leone.

I nomi delle città e dei rilievi montuosi nella regione onorano questi felini che un tempo popolavano un territorio che va dal Marocco alla Libia. Per esempio, il nome della città algerina di Orano probabilmente deriva da Oued Ahran, “fiume dei leoni”. Sempre in Algeria c’è Souk Ahras, “mercato dei leoni”, una località vicino al confine tunisino in cui sant’Agostino riposava all’ombra di un ulivo. L’antica località di Tirhet, la “leonessa”, fu dichiarata capitale dall’emiro indipendentista algerino Abdelkader. Tutti questi nomi richiamano un’epoca in cui gli esseri umani potevano entrare in contatto con questi animali.

Ancora più indietro nel tempo, l’arte rupestre risalente all’età della pietra nel massiccio dell’Hoggar, vicino a Tamanrasset, nel profondo sud algerino, presenta forme stilizzate di leoni. Dall’arte primitiva alla street art contemporanea, i leoni adornano le facciate delle case in occasione di Djerbahood, un progetto artistico a cielo aperto sull’isola tunisina di Djerba. Nel campo della letteratura lo scrittore franco-libanese Amin Maalouf ha raccontato la vita del diplomatico ed esploratore del cinquecento Hassan al-Wazzan nel romanzo del 1986 Leone l’Africano (Bompiani 2002). Il personaggio di Don Chisciotte affronta i due leoni inviati dal generale di Orano. Questi felini compaiono in forma fisica nella magnifica scalinata dei leoni all’ingresso del museo del Bardo, a Tunisi, e nel Patio dei leoni dell’Alhambra, a Granada, in Spagna.

Brahim el Guabli, docente di arabo e di letterature comparate al Williams college, negli Stati Uniti, ricorda che in alcune zone del Marocco le famiglie amazigh (berbere) – gruppo etnico a cui lui stesso appartiene – portano ancora il nome dell’animale, izm. Allo stesso tempo i leoni sono protagonisti di un aneddoto della sua storia personale. “Il ricordo più nitido della parola izm risale agli anni ottanta”, racconta El Guabli. “Una notte qualcosa spaventò i cani, e i miei genitori parlavano di izm. Ricordo mio padre che descriveva degli occhi scintillanti nell’oscurità. Da allora ho sempre associato questa parola all’oscurità e agli occhi scintillanti”. Anche nei motivi tradizionali dei tessuti berberi si trovano riferimenti all’animale, come quello della “zampa di leone”.

Ammar, 22 anni, è di Souk Ahras. Gli piace passeggiare e fotografare la natura nei dintorni della sua città. Anche se nessuno della sua famiglia ha mai visto un leone dell’Atlante in vita sua, lui ne ha sentito parlare, come ha sentito i racconti su un famoso cacciatore di leoni del novecento. “So che la zona è famosa per i leoni, e che ce n’erano molti”. Ci sono due loro statue a Souk Ahras. “Ma mi piacerebbe vederli in natura”, dice.

L’espansione demografica e la crisi climatica potrebbero ostacolare i tentativi di scongiurare una seconda estinzione del leone dell’Atlante, ma manca la volontà politica. Se le cose non cambiano, si assisterà alla tragica fine di un animale che ha già subìto le conseguenze di secoli di violenze straniere e di interessi coloniali. I principali predatori del leone arrivavano infatti dalla sponda settentrionale del Mediterraneo.

Predatori venuti da nord

Gli animali erano usati nei grandi giochi venatori dell’antica Roma. A quei tempi venivano chiamati leoni berberi, un termine del greco antico che identificava chi non parlava quella lingua, perpetuando un’idea di estraneità e sottomissione. Nel 55 aC il generale romano Pompeo portò seicento esemplari dal Nordafrica per l’inaugurazione di un teatro.

Gli animali erano temuti e acclamati, e intrattenevano il pubblico nei combattimenti con i gladiatori. Allo stesso modo chi trasgrediva le leggi poteva essere condannato a una pena chiamata damnatio ad bestia, ed essere letteralmente gettato nella fossa dei leoni. Gli archeologi hanno trovato dei teschi di gladiatori bucati da morsi di leone in un cimitero di York, nel Regno Unito.

Oppiano, un poeta greco del secondo secolo, descrisse i giochi venatori in Nordafrica, offrendo uno spaccato delle attività dei primi trafficanti di leoni. “Una grande schiera di leoni maestosi ruggisce nella divina terra dell’assetata Libia”, scriveva nel poema Cynegetica. Il leone libico ha una forza “senza limiti” e domina su tutti gli altri leoni, aggiungeva. E descriveva poi come i trafficanti attirassero i leoni in fosse mimetizzate, e poi nelle gabbie. Gli animali catturati in seguito erano mandati in Europa via mare.

La scomparsa del leone dell’Atlante accelerò nel corso dell’ottocento, man mano che le truppe coloniali francesi conquistavano l’Algeria, dove sbarcarono nel 1830, e proclamavano i protettorati in Tunisia (1881) e Marocco (1912).

In occidente le storie dei cacciatori di leoni nordafricani diventarono un cliché, contribuendo all’affermazione dell’immagine – utile all’impresa coloniale – del “feroce selvaggio”. Il giornalista Benjamin Gastineau e il viaggiatore Charles Plemeur scrissero racconti con questi toni, mentre il pittore francese romantico Eugène Delacroix realizzò dei quadri sulla caccia al leone ispirati ai suoi viaggi in Marocco nel 1832.

La caccia al leone era un passatempo molto popolare tra viaggiatori e funzionari coloniali, ma fu anche parte di un calcolo preciso, che prevedeva la conquista delle terre per i coloni e per la produzione agricola, soprattutto in Algeria, dove diventò un’altra forma di sfruttamento delle risorse naturali e di affermazione del potere. “Le persone raccontano che i leoni e le gazzelle entravano nei villaggi prima che arrivassero le auto, intorno al 1930”, racconta El Guabli. “L’introduzione delle armi da fuoco e di altre tecnologie ha cambiato per sempre la geografia e la natura della regione”. La cosiddetta civiltà ha spazzato via gli ultimi leoni rimasti.

Simon Black, docente di conservazione della biodiversità presso l’università del Kent, nel Regno Unito, e uno dei maggiori esperti di leoni nordafricani, è convinto che la reintroduzione in natura sia possibile e che potrebbe avere benefici più ampi sulla società e sull’ambiente. Progetti di questo tipo hanno avuto successo in altre parti del mondo, come per esempio in Russia. In Marocco sono stati reintrodotti nel loro habitat naturale gazzelle, cervi e cinghiali.

Un approccio olistico, come quello concepito dall’Atlas lion project, adattato alla realtà di oggi, potrebbe ripopolare la fauna e arricchire la biodiversità. E perfino favorire l’adozione di nuove soluzioni di gestione delle acque, in un paese arido come il Marocco, perché le foreste protette hanno il potenziale per ridurre l’erosione del suolo e ripristinare i bacini idrografici naturali.

Cos’è necessario affinché queste iniziative di rewilding (ritorno allo stato naturale) portino frutti anche per il leone nordafricano? Servirebbe che i politici rendessero questa causa una priorità nazionale, a sostegno del patrimonio naturale, dell’azione per il clima e della biodiversità. A livello internazionale, un progetto simile potrebbe incoraggiare il riavvicinamento diplomatico e la cooperazione tra i paesi del Nordafrica.

I politici potrebbero lavorare a partire dal consenso già esistente. Le petizioni civiche online e i gruppi sui social network dedicati alla mobilitazione per la reintroduzione del leone dell’Atlante esistono già e potrebbero trovare maggiore diffusione con nuove campagne di sensibilizzazione e comunicazione.

Tuttavia, sostenere la reintroduzione significa riconoscere i potenziali conflitti tra animali ed esseri umani su risorse in rapida diminuzione, come l’acqua, la terra e i mezzi di sussistenza per le comunità agropastorali, e ridefinire le priorità per promuovere soluzioni e modelli economici locali, sostenibili e decolonizzati. I governi e le comunità locali dovrebbero promuovere una narrazione positiva sul bilanciamento tra il patrimonio ecologico, la ricchezza e la trasmissione della cultura. In tutto il mondo rimangono complessivamente circa cento leoni dell’Atlante in cattività, tutti discendenti della collezione reale marocchina. Si può evitare la loro completa estinzione? Questo animale appartiene al mondo delle creature viventi. E può essere ancora salvato, se non si perde tempo. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1515 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati