Il futuro dell’Iran potrebbe essere cambiato per sempre con lo scoppio delle proteste innescate a settembre dalla morte di Jina (Mahsa) Amini, una donna curda originaria della città di Saqqez, che era in custodia della polizia perché indossava l’hijab “in modo inappropriato”.

Le proteste hanno generato una rinnovata ed entusiasmante solidarietà tra gli iraniani e le iraniane di ogni appartenenza etnica, e anche una solidarietà femminista internazionalista carica di promesse. Tuttavia, come donne curde, ci avvilisce vedere le origini curde di Jina sistematicamente cancellate dai grandi mezzi d’informazione, da chi partecipa alle manifestazioni della diaspora ed esprime soli­darietà.

In particolare, vorremmo concentrarci su tre forme di rimozione, che riscontriamo perfino in ambienti progressisti e femministi. La prima riguarda il modo in cui è usato (o no) il nome Jina, e il significato di questa scelta. La seconda si collega al mancato riconoscimento delle origini dell’ormai celebre slogan “Donna, vita, libertà”, elaborato dal movimento di liberazione delle donne curde affiliato al Partito dei lavoratori del Kurdistan, il Pkk, contro le società e gli stati coloniali e patriarcali. Infine, la terza forma è una rimozione più ampia del significato delle lotte e delle rivendicazioni curde in Iran e fuori del paese.

Ignorando l’identità curda di Jina, sorvolando sull’oppressione delle minoranze etniche e disconoscendo le origini del motto “Donna, vita, libertà”, si rischia di alimentare le divisioni, la diffidenza e il risentimento tra le popolazioni curde. Anche solo trascurare il collegamento tra il fatto che Jina fosse curda e la violenza che ha subìto rivela la profonda sistematicità degli attacchi contro i curdi nell’Iran di oggi. In sostanza, l’essere curda di Jina è fondamentale per comprendere la marginalizzazione di questo popolo in Iran e in tutto il Medio Oriente, e capire un movimento femminista che è anticolonialista e allo stesso tempo antimperialista.

Il nome Jina significa “dare la vita”. Sulla sua tomba sono incise le parole: “Carissima Jina, tu non morirai, il tuo nome sarà un simbolo”. Lo stato iraniano nega alle famiglie di questo gruppo etnico la possibilità di dare nomi curdi ai figli, e per molti è normale avere due nomi, uno curdo a casa e uno sui documenti. L’articolo 20 della legge iraniana sull’iscrizione all’anagrafe vieta l’uso di nomi che “denigrano i sacri princìpi dell’islam, così come gli appellativi ripugnanti e osceni”. La stessa legge conferisce al consiglio supremo dell’organizzazione nazionale per l’iscrizione anagrafica la facoltà di decidere se vietare o no un nome.

Anche se spesso sono le amministrazioni locali a prendere questa decisione, quella legge è stata usata per impedire alle famiglie delle minoranze etniche e religiose di chiamare i figli come volevano. Inoltre, bisogna sottolineare che una parte dei curdi che vive in Iran è restia a dare un nome curdo ai propri figli, per non accentuare la discriminazione sociale ed economica, nel caso un giorno dovessero spostarsi fuori dalle loro regioni d’origine per motivi di studio e lavoro. E, considerate le politiche colonialiste di Teheran, che frenano lo sviluppo di quelle regioni, cercare lavoro fuori della propria comunità è ormai sempre più frequente tra i giovani curdi.

Più in generale si cerca di soppiantare la lingua curda. In un articolo sulle politiche e sui diritti linguistici nel Kurdistan iraniano, lo studioso curdo Jaffer Sheyholislami parla del divieto per alcuni dipartimenti governativi di usare indicazioni e denominazioni curde. Sheyholislami cita una nota del ministero del commercio (agenzia dell’Azerbaigian occidentale) in cui è scritto: “Nei luoghi pubblici, le indicazioni devono essere in persiano e solo la lingua persiana dev’essere usata su cartelloni, insegne, finestre o porte di locali o negozi”.

L’articolo ricorda anche una lettera inviata dall’ufficio del demanio delle forze di sicurezza (provincia di Fars) all’ufficio cultura e orientamento, in cui si legge che il nome di un’attività non può essere una parola non persiana. Curiosamente, il nome scelto dall’attività di cui parlava la lettera era proprio Jina. Nella risposta si diceva: “Questo nome non è iraniano, ma curdo, quindi non è consentito”.

Senza comprendere questa storia e cosa significhi preferire Mahsa al nome curdo di Amini, i manifestanti iraniani e i loro sostenitori nel mondo partecipano consapevolmente (o meno) a una forma di rimozione. Per esempio, negli Stati Uniti la National women’s studies association (organizzazione formata da ricercatrici e professioniste specializzate in studi sulle donne) ha pubblicato una dichiarazione in cui usa solo il nome Mahsa, e parla genericamente di una donna iraniana di 22 anni, senza menzionare il suo essere curda né le lotte di quel popolo. Allo stesso modo, in un episodio sulle proteste, le conduttrici del programma tv Democracy now, di solito molto attente ai problemi delle popolazioni oppresse, hanno chiamato Amini solo con il nome Mahsa, accennando solo di sfuggita al fatto che era curda.

Erano occasioni per riconoscere le lotte intersezionali (che affrontano, cioè, varie forme di discriminazione e oppressione allo stesso tempo) delle donne curde in Iran, ma sono state sprecate.

Lo stato iraniano nega alle famiglie di questo gruppo etnico la possibilità di dare nomi curdi ai figli, e per molti è normale avere due nomi, uno curdo a casa e uno sui documenti

Oltre a ignorare il nome curdo Jina, molti analisti, attivisti e artisti fuori e dentro l’Iran hanno minimizzato o trascurato l’importanza di decenni di resistenza curda, e le conseguenze di questa storia sul momento rivoluzionario di oggi.

Uno degli esempi più chiari è quando i commentatori e gli attivisti sorvolano sulle origini curde dello slogan usato oggi nelle manifestazioni iraniane “Donne, vita, libertà”, in curdo “Jin, jiyan, azadi”. Molti non sanno che il motto è stato elaborato dal Movimento di liberazione delle donne del Kurdistan nel Bakur (la regione curda nel sud della Turchia) e nel Rojava (la regione curda nel nordest della Siria) a partire dalle teorie di Abdullah Öcalan sul ruolo centrale delle donne nel creare una società libera. Spesso chi viene chiamato a parlare delle proteste iraniane non menziona questa storia e questo nesso. Per esempio, Abbas Milani, professore di studi iraniani all’università di Stanford, ha risposto in modo contorto, senza fare riferimenti ai curdi, in un’intervista a Bbc Persian sull’origine dello slogan. Come lui, altri commentatori sono stati vaghi sulla storia di questa frase o l’hanno del tutto trascurata.

Ci sono altri modi in cui la lotta curda è ignorata o messa in secondo piano dai manifestanti e dai loro sostenitori. I curdi sono quasi il 50 per cento tra i tantissimi prigionieri politici iraniani, anche se all’interno della popolazione iraniana sono meno del 15 per cento. La lotta dei curdi in Iran per il riconoscimento e la libertà risale a prima della nascita della Repubblica islamica. Il nazionalismo iraniano è persiano-centrico e ha come elemento centrale la cancellazione e l’assimilazione delle altre identità. Dopo il 1979, il Kurdistan ha vissuto un inasprimento delle misure di sicurezza e della militarizzazione. Non è una coincidenza se oggi il trattamento riservato dalle autorità ai manifestanti curdi è più duro. Nelle regioni curde ci sono stati gli scontri più sanguinosi e le forze di sicurezza hanno addirittura sparato con le armi pesanti dentro le case dei civili. Eppure questi fatti vengono ignorati.

Chia Madani, un musicista e cantautore curdo, ha pubblicato un brano in risposta alla popolare canzone di protesta dell’artista iraniano Shervin Hajipour intitolata Baraye (“per”, “a causa di”). Hajipour ha usato come versi alcuni tweet che cominciavano con la parola baraye scritti in sostegno delle manifestazioni. Per questa canzone è stato arrestato.

Nel suo brano, Madani riconosce che le parole di Hajipour hanno “trasformato i dolori di milioni di persone in un messaggio volante”, ma allo stesso tempo si offre di condividere “alcuni dei suoi dolori infiniti” sull’oppressione a sfondo etnico in Iran, un tema assente dalla canzone di Hajipour, che comunque cita le sofferenze degli afgani. Madani canta: “Perdonami se dico che le mie ferite sono più antiche e più profonde delle tue / ci sono migliaia di ‘per’ nel mio cuore”. Il suo testo comincia con un riferimento a Jina e alla cancellazione del suo nome curdo: “Per Jina, a cui non è stato permesso in vita né dopo la morte di essere chiamata con il suo nome, e di passare alla storia con quello”. Parla dei dolori “invisibili” dei “curdi, dei lur, degli arabi, dei beluci” per “secoli di oppressione, di sottomissione”, “per culture e identità sepolte vive” e per “una lingua imprigionata”.

Un altro cantante, Diyako Khaleqi, ha pubblicato una versione curda di Baraye, che tra le altre cose parla della violenza contro i kulbar (i portatori transfrontalieri curdi) e di Shin Abad (un villaggio del nordest dell’Iran dove nel 2012 ci fu un terribile incendio in una scuola femminile, in cui morirono dodici studenti). Queste sono le grida di un popolo inascoltato che vuole ricordare agli iraniani i suoi dolori invisibili, in un momento in cui si affermano nuove solidarietà.

Sono stati segnalati anche casi di curdi a cui, nelle manifestazioni all’estero, è stato impedito di innalzare la bandiera del Kurdistan o contestare la cancellazione del nome e dell’identità curda di Jina. Un articolo uscito sul sito gallese Nation.Cymru riporta che la Kurdish all Wales association, un’associazione curda di Cardiff, non ha potuto portare le bandiere curde davanti al Senedd (il parlamento gallese), dove “le uniche bandiere visibili nelle foto delle manifestazioni erano quelle iraniane di prima della rivoluzione islamica”. Per questo a Cardiff i curdi hanno organizzato delle iniziative separate.

È incoraggiante invece vedere come all’interno dell’Iran s’intonino canti di protesta mai sentiti prima, come Kurdistan, la luce dell’Iran, anche nelle aree non a maggioranza curda. Nelle città turcofone del paese risuonano slogan come “L’Azerbaijan è sveglio e sta con il Kurdistan”, a riprova della nuova solidarietà che si è creata tra le persone che scendono in piazza. Per esempio, gli studenti universitari di Tabriz hanno intonato “Jin, jiyan, azadi” nella lingua curda per dimostrare la loro vicinanza alle città curde prese d’assedio dalle forze statali. Questo è un bel segnale di unità, in un paese attraversato da profonde divisioni.

In Iran ci sono donne impegnate a tessere reti di solidarietà per combattere il sistema di apartheid di genere. Questo è entusiasmante e promettente. Ma se non si presta attenzione all’esclusione di determinati gruppi, gli appelli e le dichiarazioni di solidarietà finiranno per avvantaggiare due tipi di femminismo – quello conservatore e quello essenzialista – invece di favorire un movimento progressista e anticolonialista con un programma più ampio di liberazione.

Il primo tipo è uno pseudofemminismo imperialista, che all’apparenza sostiene le lotte delle donne in Medio Oriente, senza però problematizzare il ruolo svolto dai governi e dalle istituzioni europee e nordamericane nel criminalizzare e opprimere gli abitanti della regione. Anche se è un buon segno che le donne in Europa e negli Stati Uniti si mobilitino per le iraniane, i messaggi di solidarietà che tacciono sulle politiche dei governi occidentali ostili all’immigrazione e sulle conseguenze per milioni di donne in Medio Oriente sollevano un problema.

Per esempio, la europarlamentare svedese Abir Al-Sahlani si è tagliata una ciocca di capelli in segno di solidarietà, affermando: “Finché le donne dell’Iran non saranno libere, saremo dalla loro parte”. È ironico che Al-Sahlani abbia concluso il suo intervento con lo slogan “Donne, vita, libertà” nello stesso momento in cui la Svezia ha deciso di criminalizzare i curdi per compiacere il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che minacciava di opporsi all’ingresso della Finlandia e della Svezia nella Nato. In un accordo firmato a giugno, i governi di Ankara, Helsinki e Stoccolma hanno delineato un piano per monitorare i movimenti politici curdi e filocurdi nei due paesi del Nordeuropa. Questo documento rende penalmente perseguibili molte donne curde che hanno creato meccanismi e procedure per l’uguaglianza di genere. Mentre si schierano dalle parte delle manifestanti iraniane, le femministe occidentali dovrebbero anche opporsi alla criminalizzazione dei movimenti di liberazione e dei rifugiati, persone scappate da quegli stessi regimi mediorientali che sono giudicati oppressivi.

L’altro tipo di femminismo di cui bisogna diffidare è quello essenzialista, che adotta una definizione universale di “donna” senza tenere conto delle stratificazioni di classe, e delle oppressioni e divisioni etniche e coloniali. Le donne curde in Iran hanno subìto l’emarginazione religiosa, etnica e di genere, e hanno alle spalle decenni di disobbedienza civile e attivismo. Sono state perseguitate e assassinate da altri regimi in tutto il Medio Oriente, come dimostra il recente omicidio dell’attivista femminista Nagihan Akarsel a Sulaymaniya, nel governo regionale del Kurdistan iracheno. Il tempismo di questo omicidio attribuito al governo turco è quanto mai ironico perché, come esponente del comitato editoriale della rivista Jineoloji e della commissione gineologia (il femminismo curdo) del Movimento di liberazione delle donne curde, Akarsel era stata coinvolta in prima persona nel processo che aveva portato a coniare lo slogan “Jin, jiyan, azadi”. Mentre questo motto faceva il giro del mondo, sulla sua morte è calato un silenzio assoluto.

Per Akarsel e migliaia di altre donne curde l’emancipazione femminile e la rivoluzione per una società libera guidata da donne devono andare di pari passo. Analogamente alle teorie e ai metodi intersezionali elaborati dalle donne afroamericane negli Stati Uniti, i movimenti di liberazione delle curde si sono accorti che un movimento femminista incentrato solo sull’uguaglianza di genere o sull’empowerment in società che per il resto sono razziste, capitaliste e colonialiste non porterà a quella libertà definitiva di cui tutte hanno bisogno. È per questo che il movimento femminista curdo ha organizzato istituzioni e pratiche femminili autonome – come l’autodifesa – per combattere gli stati colonialisti, e le mentalità e le strutture patriarcali all’interno delle loro società. L’idea che siano le donne a liberare le società sotto ogni aspetto, dal patriarcato alle scienze positiviste maschiocentriche, è il cuore dello slogan “Jin, jiyan, azadi”.

Per le curde in Iran, svolgere attività culturali che ostacolano l’assimilazione è già una lotta intersezionale. Ricoprendo ruoli chiave in decenni di resistenza e militanza curda, le attiviste hanno pagato il prezzo più alto per essersi opposte ai codici segnati dal genere e dal colonialismo. Ne è un esempio Zara Mohammadi, un’insegnante di curdo che vive in Iran, cofondatrice dell’associazione culturale Nojin, che nel 2021 è stata condannata a cinque anni di carcere per aver insegnato la sua lingua. L’oppressione su più livelli contro cui queste donne combattono quotidianamente, così come la loro aspirazione alla libertà, sono una lezione per chiunque voglia portare avanti una lotta femminista democratica con rivendicazioni ampie. Mettere al centro la loro lotta ha un potenziale di emancipazione per l’Iran e per tutto il Medio Oriente.

Le manifestanti in Iran sanno che Jina è curda e hanno dimostrato una coraggiosa disponibilità ad affrontare i loro privilegi e ad ammettere che lo stato in cui vivono è fondato sull’emarginazione delle donne e delle minoranze etniche e religiose.

Quindi chiamate Jina con il suo nome curdo e ricordate la lotta che sta dietro lo slogan “Donne, vita, libertà”. È un atto vitale di riconoscimento, nonché un appello a un movimento femminista intersezionale che sia antirazzista e allo stesso tempo anticolonialista. ◆ fdl

Farangis Ghaderi è un’esperta di cultura e letteratura curda dell’università britannica di Exeter.
Ozlem Goner è autrice di numerosi articoli sull’identità e sulla politica curda. Insegna in due università di New York. Questo articolo è uscito con il titolo Why ‘Jîna’: erasure of kurdish women and their politics from the uprisings in Iran su Jadaliyya, un sito di approfondimento sul mondo arabo curato dall’Arab studies institute, con sede a Beirut e a Washington.

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Questo articolo è uscito sul numero 1488 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati