Sorprende ancora il pluripremiato Jérémie Moreau. Nel narrare di tre ragazzi francesi orfani e indebitati che partono per l’Alaska lasciando il loro comfort di oggetti virtuali, telefonini e videogiochi, Moreau forgia un’estetica dove il pop levigato e asettico è trasfigurato in una sorta di psichedelia spirituale e il mondo è ridisegnato e ricolorato dalla visione primordiale, libera nelle forme. Sempre fedele a un’idea della natura panteistica ma anche violenta e capace di fare male, qui è l’uomo occidentale a provocare traumi agli ecosistemi e alle popolazioni native del mondo che seguono altre logiche. Anche l’Alaska di oggi, dietro alle apparenze, non è più la stessa e il riscaldamento climatico è un blob che avanza inesorabile devastando tutto in questa sorta di versione rovesciata del precedente Penss e le pieghe del mondo, parabola sulla nascita della nozione di civiltà tra gli uomini delle caverne. Difficile distinguere qui l’apocalisse dall’aurora (boreale), l’oblio dal fumo dell’incendio. La verità espressa è che le forme mutano sempre e bisogna coglierne la doppia verità per tempo: gli orsi polari si fondono con i grizzly e ne nascono i pizzly. Perché la civiltà umana troverà la salvezza solo se una sapienza arcaica ed emozionale si fonderà con quella razionale. E solo se immagineremo un nuovo “mondo in cui tutta l’intelligenza degli scienziati delle città possa essere messa al servizio della vita nella foresta”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1540 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati