Cosa pensavate? Che l’uccisione di 146 palestinesi in Cisgiordania nel 2022, secondo l’organizzazione israeliana B’Tselem per lo più non combattenti, sarebbe stata accettata con tranquillità? Che l’uccisione di circa trenta persone a gennaio sarebbe passata sotto silenzio? Che gli abitanti del campo profughi di Shuafat, a Gerusalemme Est, maltrattati ogni giorno dagli agenti delle forze dell’ordine e della polizia di frontiera, abituati a vedere le loro case invase per strane operazioni, come le retate per motivi fiscali o gli arresti notturni, e le loro cose e la loro dignità distrutte, lanciassero riso ai loro aggressori? Che qualcuno il cui nonno è stato ucciso da un colono e il cui amico di diciassette anni è stato ucciso la settimana prima dalla polizia di frontiera non potesse essere spinto a compiere un attentato, come l’autore dell’attacco vicino alla sinagoga di Gerusalemme?

E cosa pensavano i comandanti della folle operazione del 26 gennaio nel campo profughi di Jenin? Qual era lo scopo del raid, a parte una dimostrazione di forza? Reprimere il terrorismo? Ha solo alimentato le fiamme. L’esercito israeliano e l’unità speciale antiterrorismo della polizia sapevano che se avessero fatto irruzione in questo campo coraggioso e determinato avrebbero provocato un grande spargimento di sangue. Sapevano anche che nessun “enorme attacco terroristico all’interno d’Israele” è stato sventato da quella operazione, come ha invece proclamato il 27 gennaio il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, megafono dell’esercito. Hanno invaso il campo di mattina, mentre i bambini andavano a scuola – fortunatamente quel giorno almeno le scuole dell’Unrwa (l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi) erano chiuse per sciopero – solo perché potevano farlo.

Catena di eventi

“Se il generale Yehuda Fuchs, capo del comando centrale, avesse saputo che questo sarebbe stato il risultato, forse non avrebbe approvato l’operazione”, ha dichiarato il giornalista Alon Ben-David su Channel 13 news. E cosa pensava il generale, che ci fosse un’altra opzione? Tutti sapevano che l’intervento a Jenin avrebbe scatenato una pericolosa ondata di violenza. Non è possibile invadere il campo profughi della città senza che ci sia un massacro e nessun massacro nel campo può passare senza conseguenze. I leader militari forse pensavano di sventare degli attacchi terroristici, ma hanno alimentato una nuova ondata di attentati, e lo sapevano. Ne consegue che le mani di chi ha condotto l’operazione di Jenin sono sporche del sangue non solo dei morti di Jenin, ma anche, indirettamente, di quelli di Gerusalemme.

Ancora una volta, è Israele ad avere cominciato. Non c’è altro modo per descrivere la catena di avvenimenti. Nel campo profughi di Jenin ci sono decine di giovani armati disposti a sacrificare la loro vita. Ucciderne qualcuno non diminuisce la determinazione degli altri. Jenin è un campo profughi speciale, il cui spirito combattivo può essere trovato oggi solo nella Striscia di Gaza. La militanza del campo è fiorita nei vicoli, dove gli abitanti sono cresciuti sapendo che il loro paese gli è stato sottratto e che sono condannati alla miseria. La tortura in corso, per cui quasi ogni giorno negli ultimi mesi qualcuno è ucciso da qualche parte in Cisgiordania, era destinata a causare anche i due attentati a Gerusalemme del 28 gennaio.

Il fatto che entrambi gli attacchi siano avvenuti vicino a degli insediamenti non può essere ignorato. I luoghi degli attentati si trovano nei territori occupati da Israele, illegalmente secondo il diritto internazionale, anche se lo stato ebraico interpreta le leggi a modo suo.

Quello che succederà in seguito è nelle mani d’Israele. Non è detto che una terza intifada sia inevitabile, ma qualsiasi grandiosa operazione di vendetta israeliana getterà benzina sul fuoco. Qualsiasi punizione collettiva aggraverà la situazione, anche se soddisfa la voglia di vendetta della destra. Arrestare 42 familiari del colpevole? A che scopo, se non per soddisfare questa brama? Radere al suolo la sua casa? Una precedente demolizione nel quartiere di Shuafat, che ha portato all’arrivo sul posto di trecento poliziotti e all’uccisione di un ragazzo innocente di diciassette anni, il 27 gennaio può solo aver spronato l’abitante del campo Khairi Alkam a prendere la sua pistola e ad andare a uccidere gli ebrei nel quartiere di Neveh Yaakov, lasciando Israele sconvolto solo dalla crudeltà dei palestinesi. ◆ dl

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1497 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati