Che si parli di superamento della dominazione di genere, d’immigrazione o di Black lives matter, i “limiti dell’accettabilità” sono oggi al centro del dibattito pubblico. Se alcuni invocano l’urgenza di proteggere anche con un cambiamento del linguaggio la loro sensibilità ferita, altri rispondono che si tratta di pretese immature, che è la sensibilità umana che deve adattarsi al mondo e non viceversa. Come siamo arrivati a questo punto? Se lo chiede Svenja Flasspöhler, giornalista tedesca specializzata in filosofia. Per rispondere parte dal settecento, quando con Hume fu teorizzata la nozione di empatia per le sofferenze degli altri esseri umani e con Sade se ne scoprirono gli aspetti più oscuri e ambivalenti. Sulla base di esempi concreti e teorie filosofiche esplora poi alcune nozioni chiave nella genealogia della sensibilità: quella di trauma, di linguaggio violento, e quindi i limiti della capacità di mettersi nei panni degli altri e la crisi della prospettiva universale e standardizzata che aumenta le distanze. Ne risulta una dialettica lettura del presente in cui, da un lato, il progressivo ridursi delle disuguaglianze rende sempre più sensibili alle ingiustizie; dall’altro, si tende a pensare che tale sensibilità coincida con il progressismo, mentre, “se assolutizzata e glorificata”, può anche “diventare regressiva”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1515 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati