Nel 2010 un terremoto devastante colpì Haiti, provocando più di duecentomila vittime e danni enormi alla capitale Port-au-Prince. Due giorni dopo il sisma, quando entrai nel paese dalla Repubblica Dominicana, mi trovai a guidare lungo una strada della capitale, circondato dalle macerie. A un certo punto, a pochi isolati di distanza, notai un gruppo composto da qualche decina di persone. Si muovevano rapide verso di me. Quando furono abbastanza vicine, mi accorsi che erano tutti uomini. Avevano in mano coltelli e altre armi. Feci inversione e mi allontanai in fretta. Poche ore dopo realizzai che quegli uomini con ogni probabilità erano detenuti fuggiti dal principale penitenziario della città, crollato con il terremoto. Stavano saccheggiando Port-au-Prince e seminavano il terrore. Già circolavano voci di rappresaglie improvvisate ed esecuzioni da parte della polizia, smentite dal governo. Un giorno vidi un uomo gravemente ferito vicino al più grande cimitero della città. Era ancora vivo. Qualcuno lo aveva scaricato lì, insieme a tre cadaveri.

Ho ripensato a questi episodi all’inizio di marzo, dopo la notizia che quasi tutti i detenuti delle due più grandi prigioni del paese – più di quattromila persone in totale – erano stati liberati durante gli assalti condotti dagli uomini di Jimmy Chéri­zier, detto Barbecue, un ex poliziotto sulla quarantina che si considera una specie di rivoluzionario. Con l’aiuto di altre bande, i criminali comandati da Barbecue hanno attaccato anche l’aeroporto, scaricando le loro armi automatiche contro aerei, poliziotti e agenti della sicurezza. In una serie di conferenze stampa improvvisate, Barbecue ha detto che avrebbe scatenato una guerra civile se il primo ministro Ariel Henry non si fosse dimesso.

Poliziotti keniani

In quel momento Henry, un politico di centrodestra di 74 anni, non era ad Haiti. Pochi giorni prima era andato a Nairobi per incontrare il presidente del Kenya William Ruto e discutere di un accordo, sostenuto dagli Stati Uniti, che prevede l’invio di centinaia di poliziotti keniani ad Haiti. L’accordo fa parte di una missione internazionale approvata dalle Nazioni Unite e richiesta da Henry già nell’ottobre 2022 per riportare l’ordine nel paese. Nonostante la stretta di mano, la missione non è ancora partita. L’amministrazione Biden aveva promesso duecento milioni di finanziamenti, ma il congresso ha autorizzato solo una piccola parte della somma. Inoltre sono emersi vari ostacoli giuridici in Kenya.

La sera dell’11 marzo il primo ministro haitiano ha annunciato da Puerto Rico (dove si trova ancora) le sue dimissioni e la creazione di un consiglio di transizione. Barbecue aveva promesso “un genocidio” se Henry fosse rientrato ad Haiti. In molti sostengono che l’amministrazione Biden e vari governi regionali abbiano fatto pressione su Henry affinché si dimettesse e indicasse un sostituto accettabile in vista della transizione. Poche ore prima dell’annuncio, il segretario di stato statunitense Antony Blinken era volato in Giamaica per discutere con i leader della Comunità caraibica (Caricom) come stabilizzare la situazione. Henry non ha indicato una data per il trasferimento dei poteri. Il 12 marzo il governo di Nairobi ha annunciato che l’invio dei poliziotti per il momento è sospeso.

Negli ultimi anni Barbecue e i leader delle bande rivali hanno surclassato le forze di polizia – in alcuni casi reclutando gli agenti – e hanno assunto il comando di gran parte della capitale e delle zone circostanti. Poi hanno scatenato una serie di battaglie per il controllo del territorio, compiendo massacri e sequestrando centinaia di persone. Nel 2023 quasi cinquemila haitiani, tra cui molti bambini, sono morti nelle violenze. Rispetto al 2022 il numero di vittime è raddoppiato. All’inizio di marzo i gruppi armati hanno incendiato alcune stazioni di polizia della capitale e assaltato il porto, da cui passa gran parte degli aiuti alimentari.

Secondo­ J­ean-Martin Bauer, direttore per Haiti del Programma alimentare mondiale, “dal 2020 circa metà della popolazione vive in una situazione di carestia prolungata”, aggiungendo che “più di un milione di haitiani è a un passo dalla fame”.

Henry, comunque, non era stato eletto primo ministro. Aveva ricevuto l’incarico personalmente dal presidente Jovenel Moïse poco prima che questo fosse ucciso, nel luglio del 2021. L’episodio, che aveva coinvolto mercenari colombiani e agenti della sicurezza haitiani corrotti, molti dei quali sono stati poi arrestati e hanno confessato, è ancora poco chiaro. Henry ha svolto il suo mandato con grandi difficoltà e ha ripetuto spesso che l’instabilità a Port-au-Prince ostacolava la convocazione di nuove elezioni.

Negli ultimi mesi vari rappresentanti della società civile haitiana avevano chiesto le sue dimissioni opponendosi alla sua richiesta di un intervento esterno. Anche Barbecue ha promesso di combattere qualsiasi forza straniera che arrivi ad Haiti. Molti pensano che i disastrosi interventi internazionali del passato dimostrano che ad Haiti sia impossibile imporre l’ordine con la forza, mentre altri sottolineano l’aspetto neocoloniale di una eventualità di questo tipo e la considerano una soluzione immorale e anacronistica.

Tra gli interventi del passato ci sono l’invasione dei marines statunitensi nel 1915, seguita da due decenni di occupazione militare, e la missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite (Minustah), durata tredici anni e terminata nel 2017. La missione è stata segnata da scandali, con accuse di abusi sessuali commessi dai soldati e un’epidemia di colera che ha ucciso migliaia di haitiani, provocata con ogni probabilità da alcuni caschi blu nepalesi.

O bianco o nero

Il più forte oppositore di Henry è stato Barbecue, che aveva un rapporto amichevole con l’ex presidente Moïse, un esportatore di banane diventato poi un politico di centrodestra. La banda di Barbecue avrebbe contribuito a reprimere le proteste contro Moïse, scoppiate nelle baraccopoli vicine al Fanmi Lavalas, il partito di centrosinistra dell’ex presidente ­Jean-Bertrand Aristide. Ad Haiti, paese poverissimo, i gruppi armati controllano le baraccopoli e sono tradizionalmente alleati dei politici, che pagano i leader criminali in cambio di sostegno elettorale. Durante il mandato di Moïse (2017-2021), Barbecue ha esteso il suo dominio su un’area sempre più vasta. Quando il presidente è stato ucciso nel 2021, ha partecipato alla processione funebre. Da allora le tensioni con Henry sono aumentate.

Nella primavera del 2023 ho incontrato Barbecue in una zona della capitale sotto il suo controllo. In quell’occasione mi ha detto che voleva combattere contro “le élite” rappresentate da Henry, un haitiano benestante dalla pelle più chiara. Mi ha fatto presente che la maggioranza degli haitiani ha la pelle più scura, come la sua, e che la popolazione deve prendere in mano il proprio destino. Poi mi ha parlato dei cambiamenti che secondo lui dovevano essere introdotti: “La prima rivoluzione di cui abbiamo bisogno è mentale”, ha sentenziato. Parlando delle élite, le ha accusate di “zombificare la gente, in ogni senso. Dobbiamo cominciare a combattere contro questo fatto e a sensibilizzare la popolazione. Questo è il compito della nostra alleanza, lo stiamo già facendo nei quartieri poveri. Spieghiamo alle persone che il sistema le ha tenute nella miseria, come sono arrivate fino a quel punto e come il paese le ha fatte sprofondare sempre più in basso”. Infine Barbecue mi ha spiegato che “quando gli haitiani capiranno che lo stato è responsabile per le loro condizioni di vita, nessuno vorrà più vivere così. È una questione di tempo”.

Oltre a Barbecue, dal caos politico sono emersi altri personaggi. Tra questi c’è Guy Philippe, ex capo della polizia e uno dei leader del colpo di stato che nel 2004 rovesciò il presidente Aristide. Dopo aver trascorso sei anni in carcere negli Stati Uniti con l’accusa di riciclaggio di denaro legato al traffico di droga, Philippe è tornato ad Haiti l’anno scorso e oggi vuole diventare presidente. Poi c’è Johnson André, un potente capo criminale noto come Izo, che racconta i suoi crimini sui social network.

Jimmy Chérizier, detto Barbecue, capo di uno dei gruppi armati di Haiti. Port-au-Prince, 5 marzo 2024 (Ralph Tedy Erol, Reuters/Contrasto)

Sempre nella primavera del 2023 ho parlato anche con un diplomatico della regione che mi ha chiesto di restare anonimo. “Henry ci ha detto che vuole spezzare i legami tra lo stato e le bande”, ha spiegato. Secondo lui Barbecue stava sfruttando l’impopolare scelta di Henry di mettere fine ai sussidi sul carburante, che aveva provocato un aumento dei prezzi. Barbecue, che controllava l’accesso a uno dei principali porti per l’approvvigionamento di carburante, aveva bloccato le attività del porto per quasi due mesi.

Il diplomatico mi ha spiegato che Henry stava cercando di migliorare la situazione nel paese: “L’economia non funziona, ma lui sta facendo dei cambiamenti strutturali”. Grazie all’eliminazione dei sussidi (e ad altre riforme) la fiducia del Fondo monetario internazionale nel governo di Haiti era stata apparentemente rinnovata. “I cambiamenti hanno ovviamente creato un forte malcontento in alcuni circoli delle élite haitiane”, ha sottolineato il diplomatico. “Ogni volta che Henry cerca di andare avanti sul terreno della trasparenza e della responsabilità arrivano le rivolte, gli attacchi delle bande e gli omicidi”, ha aggiunto.

Lo scenario peggiore

Sempre la scorsa primavera ho intervistato Henry in una struttura sotto sorveglianza nelle montagne sopra Port-au-Prince. Il primo ministro ha riconosciuto i suoi limiti di leader non eletto e il potere sempre più forte dei gruppi criminali, e ha anche ammesso di avere molti nemici. “Nella politica haitiana è tutto bianco o nero”, mi ha detto. “Non esistono vie di mezzo. Quando dico ‘bianco o nero’ significa che la battaglia si conclude solo con l’eliminazione dell’avversario”. Henry riconosceva la necessità di convocare le elezioni, ma secondo lui le condizioni della sicurezza a Port-au-Prince non le rendevano possibili. Sperava in un aiuto della comunità internazionale. Le cose, però, sono andate diversamente, e ancora oggi sembra difficile che i soccorsi arriveranno in tempi brevi. Gli Stati Uniti non vogliono essere considerati una potenza neocoloniale che decide di agire unilateralmente, com’è successo durante governi precedenti. Ma è chiaro che la politica di non intervento ha fallito. Dopo l’omicidio di Moïse, nel 2021, Dan Foote, all’epoca diplomatico, è stato nominato da Joe Biden inviato speciale ad Haiti. Due mesi dopo si è dimesso in segno di protesta contro la decisione di Washing­ton di sostenere Henry e contro la politica migratoria degli Stati Uniti, che consisteva nel riportare ad Haiti tutti i migranti entrati nel paese in modo irregolare ignorando i pericoli a cui andavano incontro.

Qualche giorno fa Foote mi ha scritto su WhatsApp: “Se la liberazione dei detenuti non farà capire all’amministrazione Biden che la sua linea non ha funzionato, allora non so cosa potrebbe riuscirci. Forse Biden vuole avere sulla coscienza un’altra Gaza?”.

Secondo Foote a questo punto un intervento internazionale è necessario. “Ma allo stesso tempo credo che con un po’ più di spazio ed emancipazione gli haitiani possono arrivare a un accordo politico per un governo provvisorio e a un programma per ripristinare la sicurezza, con la possibilità di organizzare le elezioni nel giro di poche settimane”, ha aggiunto. “D’altronde, senza un partner haitiano affidabile e sostenuto dalla popolazione, qualunque sforzo internazionale sarebbe inutile”.

Ma oggi, in assenza di una forza internazionale che porti un po’ di stabilità, con la polizia duramente colpita e i soldati del neonato esercito che sorvegliano gli aeroporti e sono impegnati in continui scontri a fuoco, cresce il timore che le bande s’impossessino del paese. Le forze armate, smantellate da Aristide nel 1995, sono state ripristinate nel 2017. Oggi ci sono cinquecento soldati in servizio. La scorsa primavera il mio contatto diplomatico mi ha spiegato che un eventuale collasso della polizia – secondo lui c’erano circa ottomila agenti in un paese di undici milioni e mezzo di persone, una proporzione tra le più basse dell’emisfero occidentale – era “lo scenario peggiore”.

È proprio quello che secondo alcuni osservatori sta succedendo. A febbraio Keith Miles, un ex ufficiale delle forze speciali statunitensi che è stato diplomatico ad Haiti e in altri paesi in conflitto e oggi lavora per l’Istituto per la pace degli Stati Uniti, ha visitato Haiti per una missione esplorativa sul campo ed è tornato poco prima delle ultime violenze. Miles mi ha scritto che la rivolta delle bande lo aveva sorpreso. “Cosa posso dire? Sono rientrato con una serie di spunti su cui lavorare e con l’idea che andare avanti con Henry fosse l’unica soluzione. La domanda fondamentale è sempre la stessa: ‘I gruppi criminali marceranno mai sul Palazzo?’”. La sede del vecchio Palazzo nazionale, distrutto dal terremoto del 2010, resta il simbolo del governo haitiano. ­Miles mi ha detto che in passato le bande non avevano mai mostrato “la volontà e l’unità per occuparlo. Ma ora le cose potrebbero essere cambiate”. Pochi giorni dopo è arrivata la notizia che alcuni uomini armati avevano sparato contro il palazzo.

Intanto la violenza non si ferma. Sono state prese d’assalto la sede del ministero dell’interno e altre strutture governative. Alcuni agenti di polizia sono morti, mentre la popolazione continua a subire abusi. Qualche giorno fa ho scritto a Ralph Senecal, un imprenditore haitiano che gestisce un servizio di ambulanze a Port-au-Prince. Gli ho chiesto se lui e la sua famiglia fossero al sicuro. “No. La mia famiglia ha molta paura”, mi ha risposto. “I cani mangiano i cadaveri per strada in tutta Port-au-Prince. Non abbiamo acqua potabile. Nessuno si occupa di noi perché, come ha detto il vostro ex presidente Trump, viviamo in ‘un buco di culo di paese’”. Dopo le dimissioni di Henry, l’ho contattato di nuovo. Secondo lui servirebbe un miracolo per migliorare la situazione ad Haiti in tempi brevi: “La gente vive in strada perché le bande si impossessano delle case. Il governo non fa nulla per aiutarci”, mi ha detto. Senecal crede che gli Stati Uniti dovrebbero convincere Henry a tornare ad Haiti e dimettersi nel paese, non dall’estero. “Altrimenti saremo governati dalle bande”.

Durante la nostra intervista, l’anno scorso, Barbecue a un certo punto mi ha detto una cosa che mi è sembrata significativa per capire le tattiche della sua rivoluzione: “Per me l’idea di bene e male non esiste. Vado bene per alcune persone, male per altre. Faccio bene ad alcune persone, male ad altre. Questa è la legge della vita: il bianco e il nero, l’equilibrio”. ◆ as

Da sapere

◆L’11 marzo 2024, in un messaggio registrato da Puerto Rico, il premier haitiano Ariel Henry ha annunciato le sue dimissioni e la creazione di un consiglio di transizione. Nei giorni precedenti le bande criminali che controllano quasi tutta la capitale Port-au-Prince e intere zone del paese avevano attaccato due penitenziari, facendo evadere migliaia di detenuti, e siti strategici come l’aeroporto internazionale e il porto. Il 15 marzo a Port-au-Prince la polizia ha condotto un’operazione nel quartiere di Bas Delmas, il feudo del leader criminale Jimmy Chérizier. Ci sono state varie vittime. Il Kenya, che avrebbe dovuto inviare migliaia di agenti nell’ambito di una missione internazionale, ha reso noto che lo farà solo quando si sarà installato il consiglio di transizione. Afp


Jon Lee Anderson è un giornalista statunitense. Dal 1999 scrive per il New Yorker. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Che. Una vita rivoluzionaria (Feltrinelli 2020).

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Questo articolo è uscito sul numero 1555 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati