Arrugginita e piena di petrolio, la Fso Safer, che galleggia al largo delle coste yemenite, è una bomba a orologeria per l’ambiente. Sono anni che nonostante gli avvertimenti degli esperti la gigantesca e fatiscente petroliera agonizza non lontano dal porto di Al Hodeida, il principale punto d’ingresso degli aiuti umanitari e delle importazioni nello Yemen. La nave ha un carico di più di un milione di barili di greggio. Le avarie strutturali e la mancanza di riparazioni fanno temere che affondi o esploda con conseguenze devastanti. Alla fine di gennaio l’organizzazione ecologista Greenpeace ha di nuovo lanciato l’allarme, ricordando i pericoli non solo per l’ambiente, ma anche e soprattutto per la popolazione e l’economia del paese, oltre che per i paesi vicini affacciati sul mar Rosso. “La petroliera può esplodere da un momento all’altro”, insiste Julien Jreissati, direttore dei programmi di Greenpeace per il Medio Oriente e il Nordafrica.
All’inizio di febbraio si è finalmente aperto uno spiraglio, quando il coordinatore degli aiuti umanitari dell’Onu per lo Yemen in una nota ha espresso soddisfazione per i progressi fatti sulla sua proposta di trasferire in un’altra petroliera il carico della Fso Safer. L’iniziativa deve essere approvata dalle due parti del conflitto yemenita, che chiedono l’intervento dell’Onu dal 2019: da un lato il governo di Abd Rabbo Mansur Hadi, riconosciuto dalla comunità internazionale, che possiede legalmente la petroliera e il suo carico tramite la compagnia nazionale Sepoc; dall’altro i ribelli huthi, che controllano la zona in cui la nave è ormeggiata. Le autorità di Aden hanno confermato il sostegno al piano, e quelle di Sanaa (huthi) hanno dato un’approvazione di massima.
L’operazione comporta alcuni rischi, a causa delle mine che si trovano nelle acque intorno alla nave. Ma le Nazioni Unite sono pronte ad attuare le prime misure di emergenza e hanno a disposizione delle barriere galleggianti a Gibuti, che permetterebbero di circondare la petroliera e contenere le eventuali perdite di greggio. Poi si dovrà trovare un’altra petroliera che getti l’ancora di fianco alla Fso Safer per trasferire il carico, il cui valore stimato è di 60 milioni di dollari. Non ci sono informazioni sul futuro del carico e su un’eventuale spartizione tra i due fronti yemeniti.
Colosso immobile
Per quanto riguarda la Fso Safer, secondo l’Onu “è irreparabile”. Un’inchiesta del New Yorker pubblicata a ottobre del 2021 ricostruisce la storia di questa enorme petroliera che, con i suoi 360 metri di lunghezza, è tra le più grandi mai costruite. Uscita dai cantieri giapponesi nel 1976, poco più di dieci anni dopo fu trasformata in un’unità galleggiante di stoccaggio e di scarico dalla società statunitense Hunt Oil Company, che cercava una soluzione economica per immagazzinare ed esportare il greggio estratto nella ricca provincia di Marib, nel nord dello Yemen. Da allora non si è più mossa dal punto in cui è ancorata. La Sepoc, che nel 2005 l’ha presa in gestione, spendeva ogni anno più di 20 milioni di dollari per la manutenzione. Poi nel settembre 2014 gli huthi hanno conquistato Sanaa. Dall’anno successivo, visto che si trova di fronte al porto di Ras Issa, in una zona controllata dai ribelli, la petroliera non è più stata ispezionata né ha ricevuto alcuna manutenzione.
A causa della mancanza di combustibili, la produzione di gas inerti (necessari a neutralizzare i gas infiammabili derivanti dal petrolio) non è garantita, e questo aumenta il rischio di un’esplosione. Negli anni novanta la Fso Safer era considerata dalle circa cinquanta persone che operavano a bordo come il luogo ideale per lavorare nello Yemen. Oggi l’equipaggio è ridotto a poche persone, che tentano di mantenere la petroliera in vita.
La marea nera che scaturirebbe da un naufragio o da un’esplosione, a meno di dieci chilometri dalle coste, avrebbe un impatto diretto sull’ambiente: contaminerebbe l’ecosistema marino, dai coralli alle mangrovie, e inquinerebbe l’aria fino alle aree interne. L’impossibilità di pescare lascerebbe senza fonti di sostentamento 1,7 milioni di persone, secondo il rapporto di Greenpeace, senza contare il rischio sanitario, in particolare il pericolo di infezioni respiratorie. “Sarebbe una catastrofe per lo Yemen, ma il rapporto dimostra anche che le conseguenze sui paesi vicini saranno più significative di quanto previsto”, precisa Jreissati. Un’eventuale marea nera toccherebbe l’Arabia Saudita e Gibuti, e a seconda delle correnti potrebbe colpire l’Eritrea, la Somalia e l’Egitto. Circa dieci milioni di yemeniti e sauditi non avrebbero più accesso all’acqua potabile prodotta dagli impianti di desalinizzazione sul mar Rosso. Una catastrofe intorno alla Fso Safer comprometterebbe inoltre un punto di transito non trascurabile del commercio marittimo mondiale, che collega il canale di Suez al mar Arabico. E avrebbe “conseguenze sulla crisi umanitaria, perché potrebbe bloccare i due porti di Al Hodeida e Salif, attraverso cui passa più del 70 per cento degli aiuti umanitari”, spiega Jreissati.
Ma non è scontato che la soluzione sia rapida. Nel 2019 gli huthi hanno impedito l’ispezione di una squadra dell’Onu sulla petroliera. Un altro accordo concluso un anno dopo per una missione di valutazione si è arenato perché i ribelli esigevano in cambio di dirigere le riparazioni. La petroliera per loro è una moneta di scambio. Sostenuti da Teheran, gli huthi nel 2021 hanno lanciato un’offensiva sulla provincia di Marib, ultimo bastione del governo yemenita nel nord del paese, e di recente hanno subìto delle sconfitte contro le forze lealiste appoggiate dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita. Eppure alcuni segnali indicano che si sta cercando un compromesso. Gli attacchi rivendicati dai ribelli yemeniti contro Abu Dhabi e Riyadh, per rappresaglia contro il loro appoggio alle forze lealiste, sono diminuiti nelle ultime settimane. L’approvazione di massima data dagli huthi per la soluzione dell’Onu arriva inoltre in un momento in cui i negoziati a Vienna per tornare all’accordo sul nucleare del 2015 stanno entrando nella fase finale. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1450 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati