La conversazione comincia con una frase inaspettata. “Mi scuso per il fatto di dover fare l’intervista in inglese”, dice Naomi Beckwith da buona cittadina del mondo, quasi per prendere le distanze dalla superbia culturale statunitense, e forse perché sospetta che la sua non sarà una lingua franca ancora per molto tempo. Il sole splende su Manhattan, con un cielo turchese macchiato all’orizzonte da alcune nuvole bianche che sembrano “uscite da un quadro di Magritte”. Le descrive così, dall’altro lato dello schermo, la nuova capocuratrice del museo Guggenheim di New York, scelta a giugno del 2021 per uno dei ruoli più ambiti del mondo dell’arte.

La nomina di questa storica nata a Chicago 45 anni fa, specializzata in arte afroamericana e nell’eredità della diaspora africana, è stata un’enorme sorpresa anche per lei. “A dire la verità non me l’aspettavo. Mi occupo soprattutto di arte contemporanea, mentre il Guggenheim si è concentrato in particolare sulla storia delle avanguardie. Direi che a convincerli è stato il fatto che non vedo una separazione netta tra le due cose. Studio l’arte dei nostri giorni come un proseguimento di tutto quello che è successo prima”.

La mattina dell’intervista, quando arriva nel suo ufficio, Beckwith osserva la leggendaria scala a spirale dell’edificio che ospita il museo, il cilindro irregolare e bianco progettato da Frank Lloyd Wright sul lato est di Central park. “È una forma che mi piace, perché avanza girando su se stessa. È il miglior modo di guardare l’arte. O almeno come lo faccio io”, dice.

L’ascesa di Beckwith è avvenuta in un contesto di profondi cambiamenti nelle istituzioni culturali statunitensi. Nel 2014 ha firmato un saggio sulla rivista specializzata Frieze in cui si opponeva alle “fantasie del mondo dell’arte come uno spazio astorico, un cubo bianco slegato dalle lotte sociali”. Solo alcuni anni dopo il suo punto di vista, che all’epoca era minoritario, è diventato dominante negli Stati Uniti, un paese alle prese con un riesame delle gerarchie del passato dopo l’ascesa delle rivendicazioni identitarie.

All’improvviso i musei hanno smesso di far finta di essere luoghi apolitici. “Non sono neutrali e non lo sono mai stati. Un esempio: quando si presenta un artista bianco, generalmente si parla della sua opera. Quando si presenta un artista appartenente a una minoranza, invece, si parla sempre della sua biografia. Succede agli artisti neri ma anche a tutti quelli che occupano la categoria dell’altro: le donne, gli indigeni e le persone queer”.

La missione di Beckwith sarà lasciarsi alle spalle questi pregiudizi, che considera appartenenti a un altro secolo, e puntare su una programmazione che comprenda più artisti appartenenti alle minoranze o a gruppi discriminati. “È il mio mandato, ma vorrei andare oltre la mia responsabilità personale. Desidero che tutte le persone che lavorano nel museo si chiedano la stessa cosa che mi chiedo da anni: quali storie stiamo trascurando per dare spazio ai soliti nomi?”.

Successo svedese

Nel 2019 una retrospettiva dedicata alla pittrice svedese Hilma af Klint, riscoperta dieci anni fa e oggi considerata una pioniera dell’astrattismo quasi allo stesso livello di Kandinskij o di Kupka (le sue opere sono vicine ai loro quadri al MoMa di New York), ha battuto tutti i record di presenze nella storia del Guggenheim con seicentomila visitatori. È stata una vera lezione: c’era bisogno di raccontare nuove storie per raggiungere i visitatori.

“Ampliare il repertorio non significa che non ci saranno più mostre su Kandinskij”, spiega Beckwith. “L’opera di qualsiasi grande artista merita di essere riscoperta continuamente. Cercheremo semplicemente di offrire nuovi punti di vista: per esempio, smettere di descrivere Kandinskij come un genio solitario per inquadrarlo nella storia sociale del suo tempo e per collegarlo ad altri artisti, donne comprese”.

Biografia

1976 Nasce a Chicago, negli Stati Uniti.

1998 Si laurea in storia e studi afroamericani all’università di Evanston.

2007 Comincia a curare alcune mostre allo Studio museum di Harlem, a New York.

2011 È assunta come curatrice del museo di arte contemporanea di Chicago, di cui diventerà capocuratrice nel 2018.

2021 Diventa la capocuratrice del Guggenheim di New York.


La mostra dedicata al pittore russo che il Guggenheim ha inaugurato a ottobre del 2021 dialogava con una retrospettiva di Etel Adnan, poeta e pittrice libanese morta a novembre a 86 anni. “Non esiste un’unica storia dell’arte. Anche il mio approccio non è né l’unico né il migliore: tra cinque o dieci anni arriveranno altre persone che la approfondiranno in modi diversi, ed è giusto così”, dice.

La sua nomina è la punta dell’iceberg di un processo che sta portando professionisti più giovani e di diversa estrazione nei posti chiave dei più grandi musei e delle principali gallerie statunitensi. “C’è un ricambio generazionale sia negli Stati Uniti sia in Europa”, dice ricordando il caso di Elvira Dyangani Ose, la prima direttrice nella storia del Macba di Barcellona. “Ci sono mostre diverse, un maggior interesse per la teoria queer e le idee postcoloniali. L’arte si sta aprendo a nuove energie”. Secondo Beckwith i musei oggi hanno un volto diverso da quello che avevano dieci anni fa. “Stanno ripensando le storie, i metodi, le collezioni e i processi di reclutamento. Per fortuna anche il Guggenheim l’ha fatto”.

Beckwith è diventata la capocuratrice del museo dopo che più di duecento dipendenti ed ex dipendenti hanno scritto una lettera aperta per denunciare “una cultura dominante bianca e un ambiente di lavoro tossico”. La curatrice Nancy Spector, una leggenda vivente del mondo dell’arte, che lavorava da vent’anni al museo, è stata travolta dalle polemiche: i dipendenti l’hanno accusata di “abusi di potere”. Poche settimane dopo la pubblicazione della lettera Spector è stata sostituita da Beckwith.

Il prestigio della nuova curatrice le viene dal lavoro fatto allo Studio museum di Harlem, a New York, e al museo di arte contemporanea di Chicago, dove ha organizzato mostre dedicate ad artiste nere come Howardena Pindell o Lynette Yiadom-Boakye. Ma anche, come lei stessa ammette, dalla “dimensione simbolica” del suo profilo, in quanto prima persona afroamericana ad assumere l’incarico. “So di rappresentare una serie di cose, al di là delle mostre che ho curato. E anche se il simbolo non è mai tutto, mi è sembrato importante accettare questa visibilità per chi arriverà dopo. Vedendomi, forse qualcun altro penserà che si può fare”, dice Beckwith.

Beckwith ricorda ancora il dispiacere dei suoi genitori, entrambi professori, quando annunciò che avrebbe abbandonato gli studi di medicina per diventare curatrice di mostre. “Mia madre per poco non mi ripudiò. Si chiedeva che tipo di povertà mi aspettasse”, ricorda ridendo. “All’epoca i direttori dei musei non erano delle star. Oggi finiscono sulle riviste”.

Il suo incontro con l’artista concettuale Mark Dion nella sua scuola di Chicago, in cui lui aveva ideato un progetto con gli studenti, la segnò profondamente e le fece abbandonare la scienza pura: “Dion mi ha insegnato che non esisteva l’arte per l’arte, che la gente non dipingeva tanto per dipingere né scolpiva solo per la bellezza del marmo. L’arte è un veicolo intellettuale che apre una porta alla filosofia, alla scienza e alla storia sociale. Mi è sembrato un campo che mi avrebbe permesso di continuare a essere curiosa verso il mondo”.

Beckwith è cresciuta negli anni settanta nel South side di Chicago, il quartiere a maggioranza afroamericana di Jesse Jackson e Michelle Obama, in un clima politicizzato: “Ho passato l’infanzia in un posto pieno di musicisti e artisti. Questo ha inciso sul tipo di curatrice che sono diventata. Ho una definizione molto ampia di ciò che è arte, in cui entrano sia l’aspetto formale sia quello informale. In quel periodo la comunità nera ha sentito il desiderio di riscoprire le proprie origini africane. Non sono cresciuta in una famiglia ricca, ma non mi sono mai sentita inferiore a nessuno. È questo il regalo che mi ha dato il luogo in cui sono nata, in cui molti hanno riscoperto l’eredità culturale che per troppi anni era stata disprezzata e ne hanno fatto un motivo di orgoglio”.

Ed è questo il nuovo sguardo nei confronti della storia dell’arte che sembra destinato a cambiare quello che vediamo (e impariamo) nei musei. ◆ fr

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Questo articolo è uscito sul numero 1445 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati