Quanto la lotta per le piste ciclabili sia dura anche in Germania è emerso recentemente a Gießen. Con una circonvallazione a quattro corsie, la cittadina universitaria si era data un obiettivo piuttosto audace: riservare agli automobilisti solo le due corsie esterne, entrambe a senso unico, mentre le due interne sarebbero state destinate a ciclisti e autobus. L’esperimento doveva durare un anno.

Nel giugno 2023 la città del centro della Germania aveva avviato i lavori, che però non sono stati completati: alla fine di agosto, in seguito a un ricorso presentato da alcuni cittadini, il tribunale amministrativo si è pronunciato contro il progetto, sostenendo che il comune non avesse giustificato in modo abbastanza plausibile la realizzazione dell’opera. Il comune quindi ha dovuto ripristinare la situazione originaria smontando i cartelli, cancellando la segnaletica e coprendo i semafori. Dalla fine di novembre il traffico automobilistico è tornato come prima, come se non fosse mai successo niente.

Il caso Gießen mostra quanto è facile che l’idea di una viabilità diversa vada a infrangersi contro la realtà, ed è un buon esempio delle continue battute d’arresto subite dai progetti di questo tipo, ad Hannover come a Berlino o a Monaco. Nei consigli comunali tedeschi ogni volta che qualcuno cerca di limitare il traffico scoppiano liti, qualcuno si rivolge ai tribunali e i cittadini protestano. Eppure a un certo punto sembrava quasi scontato che in futuro le città avrebbero riservato più spazio alle biciclette e ai pedoni. Come Gießen, molti altri comuni grandi e piccoli vorrebbero costruire piste ciclabili riducendo i parcheggi per le auto. Tra chi si occupa di urbanistica e pianificazione dei trasporti questi progetti hanno un consenso praticamente unanime: in piena emergenza climatica, le città troppo cementificate non sembrano più al passo con i tempi. E, anche se il numero delle automobili è in aumento, i servizi di car sharing, il biglietto unico per i trasporti locali e regionali e il boom delle biciclette favoriscono una riqualificazione urbana sostenibile.

A livello politico, però, la resistenza è fortissima: gli automobilisti che non possono più arrivare in auto fin sulla soglia dei negozi andando a cinquanta chilometri all’ora dicono che si limita la loro libertà personale. Partiti e liste civiche danno spazio a queste voci, mentre i mezzi d’informazione locali sono ben contenti di dare rilievo a un tema così divisivo.

Ma qual è il motivo di tutta questa ostilità verso progetti che in fondo mirano solo a rendere le città un po’ più verdi? A domande di questo tipo prova a rispondere Karoline Augenstein, del Centro di ricerca sulla transizione e sulla sostenibilità di Wuppertal. Augenstein si occupa dei conflitti che nascono a ridosso dei processi di cambiamento e del ruolo svolto da determinati modi di raccontare la realtà. Secondo lei fino a oggi la mobilità sostenibile è stata sviluppata e promossa soprattutto dagli esperti del settore. “Ora, invece, siamo arrivati al punto critico in cui si tratta di allargare il campo, coinvolgere più persone”. Ed è piuttosto raro che un cambiamento strutturale di questa portata si svolga in maniera lineare. Ogni volta che si riescono a fare due passi avanti, se ne fa uno indietro.

Per Augenstein il conflitto intorno agli spazi urbani fa capire come la lotta al cambiamento climatico riesca a far vacillare le nostre certezze: sono ancora libero di scegliere il tipo di riscaldamento da installare in casa mia? O di guidare un’auto che usa il carburante che voglio io? Nel 2023 questi dibattiti sono stati onnipresenti, penalizzando le politiche di contrasto al cambiamento climatico. Lo ricorderemo come l’anno dell’inversione di rotta sulla mobilità sostenibile? Amsterdam, Parigi e Copenaghen smetteranno di essere esempi da seguire?

Si mette male

Ci sono vari segnali che le cose si stanno mettendo male, non solo a Gießen. Per esempio il fallimento del tentativo di riformare il codice della strada a livello federale. Il governo avrebbe voluto agevolare la creazione di zone con il limite di velocità a trenta chilometri orari e moltiplicare strisce pedonali e parcheggi riservati ai residenti, ma per ora sembra impossibile imporre misure come queste motivandole solo con il contrasto al cambiamento climatico. È la ragione per cui l’esperimento di Gießen non ha superato il vaglio del tribunale. In più c’è da dire che, anche se fosse passata, la riforma del codice della strada sarebbe stata insufficiente.

Poi c’è la questione del land di Berlino, che con il nuovo governo sta rivedendo perfino le riforme già attuate: nella primavera del 2023 l’Unione cristianodemocratica (Cdu, centrodestra) ha vinto le elezioni grazie a una campagna favorevole alle automobili, mentre la candidata dei Verdi non è riuscita a conquistare la capitale con il progetto “più Bullerby” (dal nome del borgo idilliaco immaginato dalla scrittrice Astrid Lindgren). Nel corso dell’estate, la nuova coalizione di governo (Cdu e Partito socialdemocratico, Spd, di centrosinistra) ha riaperto al traffico la centralissima Friedrichstraße e ha momentaneamente sospeso la costruzione di nuove piste ciclabili. In autunno, poi, ha spiegato come vorrebbe modificare la mobilità berlinese, per esempio riducendo l’ampiezza delle nuove piste ciclabili. “Più mobilità per tutti! Basta con l’ideologia verde dei divieti!”, ha esultato Dirk Stettner, capogruppo della Cdu nel parlamento locale. Ma le modifiche non sono state ancora approvate e sono contestate da più di settanta tra associazioni e organizzazioni.

Un altro segnale arriva da Hannover, capitale della Bassa Sassonia, dove alla fine di novembre 2023 la coalizione rosso-verde si è spaccata perché il sindaco, il verde Belit Onay, avrebbe voluto pedonalizzare quasi tutto il centro, vietando il transito delle auto e la possibilità di parcheggiare su strada. Era il progetto di punta del suo mandato, ma gli scontri con gli alleati sono stati talmente aspri che alla fine l’Spd ha abbandonato la coalizione, con il segretario regionale Adis Ahmetović che ha parlato di “rigidità ideologica”.

La realizzazione di una pista ciclabile a Berlino, il 23 aprile 2020  (Krisztian Bocsi, Bloomberg/Getty)

Sono accuse che si sentono sempre quando viene messa in dubbio l’egemonia dell’automobile: si parla di ideologia, di cultura dei divieti, di progetti di rieducazione. Questi concetti sono armi nella guerra culturale che si è scatenata sul tema dell’auto. I conservatori si sentono sotto attacco e rivendicano di essere loro quelli “ragionevoli”, mentre i riformatori li accusano di bloccare un cambiamento necessario, ignorando la crisi climatica.

Ragione contro emozioni

Heinrich Strößenreuther conosce questa guerra culturale meglio di chiunque altro, anche se preferisce parlare di un “concretissimo conflitto per la distribuzione degli spazi”. In passato militante dei Verdi, oggi Strößenreuther fa parte della Cdu berlinese, per cui da un lato si fa convinto portavoce di tutte le questioni che riguardano il clima e le biciclette, ma dall’altro mantiene un atteggiamento conciliante con i compagni di partito che su questi temi sono più freddi.

È anche uno degli autori del libro Die Verkehrswesen (Il sistema dei trasporti). A rappresentare il conflitto ci sono due personaggi emblematici: Wendy, grande utente dei servizi di sharing, che sfreccia per la città in sella alla sua bici cargo; e Rolf, “motorizzatissimo e con una villetta di proprietà” in una zona residenziale. Due cliché, insomma, che però contengono una parte di verità.

Perché lo scontro si è così sclerotizzato? Secondo Strößenreuther il fatto è che Wendy, sentendo di aver ragione, è un attacco alle emozioni di Rolf, alla sua identità, al suo stile di vita. E non dovrebbe stupire, visto che l’automobile attiva le stesse aree cerebrali del sesso, quelle legate alla gratificazione.

Quando gli attivisti contro le auto si limitano a sciorinare le loro argomentazioni senza tener conto del fatto che non si tratta di una questione puramente razionale, finiscono per scontrarsi con delle “portiere chiuse”. Perché, per quanto valide possano essere certe loro osservazioni, non è detto che siano convincenti dal punto di vista emotivo.

Una minoranza sta tentando d’imporre qualcosa che i più non vogliono affatto? In un sondaggio realizzato dall’istituto Civey, il 57 per cento degli intervistati non vuole che nei centri urbani siano istituite più zone con il limite di velocità di trenta chilometri orari. Neanche nelle aree più popolose c’è una maggioranza a favore dell’estensione del limite.

Nel 2023 l’enorme carica emotiva della questione si è vista anche a Monaco, roccaforte dei Verdi: nella parte meridionale del quartiere di Au il comune ha fatto allestire provvisoriamente, per il periodo estivo, una zona con prati, aiuole e panchine. Nonostante gli incontri pubblici e le campagne di sensibilizzazione che hanno preceduto l’intervento, la situazione è degenerata.

Qualcuno era contento che i posti auto si trasformassero in aree giochi per bambini, ma altri, come ha documentato la Süddeutsche Zeitung, gli sparavano dai balconi con delle pistole ad acqua. Anche in questo caso la vicenda è finita davanti a un giudice e il progetto è stato interrotto una settimana prima del previsto. Strößenreuther consiglia il disarmo verbale: bisogna smettere di parlare di “svolta” della mobilità, perché evoca una rivoluzione. Meglio parlare di “riforme”, al plurale. “Ci ostiniamo a voler convincere i più testardi, mentre il punto è coinvolgere i moderati, quelli ragionevoli”. E per farlo servono buone alternative, capaci di rendere l’automobile meno necessaria. Del resto, se il traffico complessivo si riducesse, i primi a beneficiarne sarebbero proprio i pochi automobilisti rimasti: ingorghi e carenza di parcheggi non sono certo dovuti ai ciclisti.

La vecchia normalità scricchiola

Ma perché questo messaggio è così difficile da trasmettere? Perché molti non riconoscono che cedere più spazio urbano a ciclisti e pedoni ha dei vantaggi?

Per rispondere, la ricercatrice Augenstein ricorre al concetto di “normalità” e al potere che racchiude. È “normale” quello che non ha bisogno di essere spiegato perché è saldamente ancorato nelle nostre abitudini. “È normale che per strada ci siano le auto e che bici e pedoni abbiano poco spazio”.

Ogni elemento di rottura rispetto a una presunta normalità va giustificato, per questo ci sono le resistenze e le accuse di essere ideologici. Oggi, però, la vecchia normalità scricchiola: la trasformazione è già in atto da un pezzo. Le polemiche non fanno altro che sottolineare che qualcosa si sta muovendo.

Insomma, quelle di Hannover, Berlino e Gießen rischiano di essere battaglie di retroguardia, combattute dai fedelissimi dell’automobile. A favore di questa tesi c’è il fatto che, per chi vorrebbe fare di più per ciclisti e pedoni le cose in realtà non vanno sempre male. Recentemente Francoforte ha annunciato di voler rendere il centro semipedonale, con un limite di velocità a venti chilometri orari e strade secondarie a misura di bicicletta. A Berlino, in barba a tutte le guerre culturali, nella Schönhauser Allee si stanno costruendo piste ciclabili protette, che toglieranno circa 140 parcheggi. Ad Amburgo, nonostante la crescita della popolazione, dal 2000 il traffico automobilistico è diminuito del 19 per cento, mentre quello delle biciclette è aumentato del 120 per cento. E in molti altri posti la situazione è simile.

Insomma, nella riqualificazione urbana potremmo aver fatto sì un passo indietro, ma anche due passi avanti. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1560 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati