Cinque anni fa, quando l’uragano Irma aveva ormai finito di tormentare la costa degli Stati Uniti affacciata sul golfo del Messico, decisi di girare in barca i canali di Cape Coral, una località della Florida conosciuta come “la meraviglia sull’acqua”. All’epoca Cape Coral era il centro abitato in più rapida crescita di tutti gli Stati Uniti. Quel giorno tirava una brezza leggera, e il sole era oscurato solo da qualche nuvola isolata. Mentre indicavo le verande distrutte e i cumuli di detriti, la mia guida, Brian Tattersall, continuava a dirmi che dovevo godermi la magia di quel pomeriggio. Era convinto che io, come tutti i suoi amici del nord, lo considerassi un pazzo per aver scelto di vivere nella zona della Florida più colpita dagli uragani. “Davvero pensi che vivere in questo paradiso sia da pazzi?”, mi chiese Tattersall mentre costeggiavamo le file di palme.

Cape Coral è un lembo di terra che sorge su una zona un tempo completamente paludosa. S’innalza a malapena sul livello dell’acqua ed è attraversato da 650 chilometri di canali di drenaggio a nido d’ape. Agli occhi di Tattersall appariva come una Venezia subtropicale, un posto dove poter ormeggiare la barca proprio davanti a casa e pagare pochissime tasse. Quando gli chiesi se l’uragano avrebbe rallentato la crescita demografica della città, si mise a ridere: “Impossibile”. Poi però si fermò a riflettere. Irma aveva sterzato all’ultimo momento, ma aveva comunque causato danni enormi. “Certo, se una tempesta facesse alzare di quattro o cinque metri il livello dell’acqua, Cape Coral affonderebbe”, ammise. Poi ci ripensò di nuovo. “Ma puoi scommettere che anche in quel caso la gente continuerebbe a venire”.

Il 28 settembre l’uragano Ian si è abbattuto su Cape Coral. Anche se l’acqua è salita di “appena” 3,5 metri, quasi tutto il centro abitato è stato inondato. Le infrastrutture sono state devastate e la rete idrica è stata chiusa. La corrente elettrica non è stata ancora del tutto ripristinata. È presto per valutare i danni, ma le immagini girate dai residenti travolti dalla tempesta sono spaventose. L’uragano ha richiamato l’attenzione su un articolo che scrissi per Politico dopo la mia visita a
Cape Coral, nel 2017, intitolato “La città del boom che non dovrebbe esistere”. In sintesi sostenevo che Cape Coral era un paradiso insostenibile e rappresentava il futuro della Florida in un’epoca segnata dall’innalzamento dei mari e dagli eventi climatici estremi. Mi chiedevo perché “venti milioni di statunitensi vivessero su una penisola colpita regolarmente dalle alluvioni e dalle tempeste e che in passato era la regione meno popolata del paese”.

Ora il conto è arrivato. Ian ha strappato a Irma il titolo di tempesta più dannosa nella storia dello stato. Sono triste per le vittime dell’uragano. Sono arrabbiato con i politici locali, corrotti e incapaci. Ma sono anche preoccupato per il futuro, perché temo che Brian Tattersall avesse ragione: quando i detriti saranno rimossi, le persone torneranno ad affollare Cape Coral e la Florida. Il problema è che l’ultima parola spetterà sempre a madre natura.

La tragedia provocata da Ian dovrebbe aiutare gli abitanti della Florida a capire le conseguenze della distruzione dell’ambiente, dell’urbanizzazione sfrenata e del negazionismo climatico. Punto il dito contro il rapporto disfunzionale tra l’uomo e la natura fin dal 2006, quando ho scritto un libro sull’argomento. Ma sui social network molte persone di sinistra hanno usato il mio lavoro solo per stigmatizzare gli abitanti della Florida che decidono di esporsi al rischio climatico. Oltre a essere fastidiose, queste critiche ignorano una parte del mio messaggio. Dopo tutto anch’io vivo in Florida, in un’area esposta al rischio climatico.

Truffatori e sprovveduti

Il fascino di questo stato non è un mito inventato dall’attuale governatore repubblicano Ron DeSantis. È importante capire il motivo per cui la Florida è ancora considerata un paradiso, e per riuscirci bisogna fare un passo indietro.

Gli spagnoli che arrivarono da queste parti nel cinquecento riferirono al loro re che la penisola era “tendente alle inondazioni e completamente inutile”. I bianchi rimasero alla larga dalla Florida fino a quando, nell’ottocento, l’esercito statunitense diede la caccia al popolo seminole fino alle Everglades, la grande zona paludosa nel sud della penisola. I soldati, impantanati negli acquitrini infestati dalle zanzare, definirono questa terra “orribile”, “diabolica”, “repellente”, “pestilenziale” e “dimenticata da dio”.

Nel novecento una lunga schiera di sognatori e avventurieri cercò di sbarazzarsi dell’acqua bonificando le paludi. Alla fine ci riuscirono. Hanno trasformato un posto inospitale e remoto in una megalopoli in frenetica espansione, eliminando milioni di ettari di acquitrini e sostituendoli con centri commerciali, campi da golf, aree residenziali e autostrade. Ma la loro guerra contro la natura ha avuto un costo ambientale gigantesco: è stata spazzata via metà delle Everglades, alterando pesantemente l’altra metà. Gli abitanti hanno distrutto le paludi di mangrovie e altre protezioni naturali. In sostanza hanno scombussolato la natura, ed è per questo che la Florida alterna siccità strutturali a violente inondazioni mentre un numero sempre maggiore di baie, barriere coralline e falde acquifere continua a scomparire.

Cape Coral è la Florida all’ennesima potenza, un panorama artificiale fino al ridicolo, che comprende sette isole perfettamente rettangolari e otto laghi perfettamente quadrati, tutto artificiale. La città è stata costruita da due fratelli che avevano fatto fortuna truffando le persone con presunti rimedi miracolosi contro la calvizie, prima di dedicare i loro talenti a una nuova missione: vendere terreni paludosi a gente sprovveduta. I due fratelli non si preoccuparono di costruire fogne, parchi o altre infrastrutture, fatta eccezione per tutti quei canali ecodistruttivi progettati per drenare la palude e creare abitazioni affacciate sull’acqua. Gli sprovveduti ci cascarono, anche dopo che i due fratelli furono arrestati per frode.

Oggi a Cape Coral vivono 200mila persone. Non ci sono università, attrazioni turistiche o industrie importanti. La maggior parte dei posti di lavoro viene dal governo, dall’ospedale e dai supermercati. Eppure resta uno dei centri abitati con la crescita più rapida negli Stati Uniti.

Ricostruire meglio

Per troppo tempo gran parte dell’economia della Florida ha funzionato come lo schema Ponzi: bisognava attirare mille nuovi abitanti al giorno – inclusi mediatori di mutui, esperti di costruzioni in cartongesso e pianificatori urbanistici – la cui sopravvivenza dipendeva dalla possibilità di attirare altri mille nuovi abitanti il giorno successivo. In Florida non esiste una cultura della programmazione e degli investimenti a lungo termine. Non esistono etica, responsabilità o gestione del rischio. La Florida ha sempre pensato in termini di “adesso, mio, ancora”. Ora la natura ha detto la sua. Ma non significa che impareremo la lezione.

Occupandomi di adattamento alle conseguenze della crisi climatica ho imparato che alla grande maggioranza degli abitanti dello stato l’argomento non interessa, soprattutto se sono appena arrivati e ancora di più se sono appena andati in pensione. Queste persone sono venute qui per godersi il caldo in uno stato senza tasse sul reddito, non per costruire un futuro migliore per le prossime generazioni.

L’area metropolitana che nell’ultimo decennio ha fatto registrare la crescita di popolazione più alta sono i Villages, una comunità abitata da pensionati di destra, nella Florida centrale. Nel 2016 nove delle venti aree metropolitane statunitensi più in crescita erano in Florida. Di queste nove, otto hanno votato per Donald Trump. Questa tendenza spiega come mai questo stato, a lungo considerato in bilico alle elezioni presidenziali, oggi sia solidamente repubblicano. Dopo essere stato eletto alla camera in rappresentanza della Florida, nel 2013, DeSantis votò contro gli aiuti federali per le vittime dell’uraganano Sandy. Oggi, come governatore dello stato, chiede aiuti federali per le vittime dell’uragano Ian, una forma di ipocrisia tipica della Florida. DeSantis è salito alla ribalta nazionale parlando di “stato libero” della Florida, un posto dove non bisogna preoccuparsi degli allarmisti che vi chiedono di indossare la mascherina o vi dicono dove costruire la vostra casa o quando innaffiare il prato. DeSantis ha spacciato l’irresponsabilità per virtù: preoccuparsi delle conseguenze è una cosa da perdenti.

Ma ora il conto è arrivato, anche se non è chiaro chi dovrà pagarlo. La mia compagnia assicurativa ha dichiarato bancarotta a settembre, ed è la sesta compagnia finita in rovina dall’inizio dell’anno. Lo stato si è fatto carico della mia polizza e lo stesso avrà fatto con altre migliaia di persone che chiederanno un risarcimento. Siamo diventati troppo grandi per fallire.

Non è detto che la Florida debba per forza essere così. Il mio articolo del 2017 si concludeva con una visita a Babcock Ranch, una comunità a mezz’ora dalla costa alimentata dall’energia solare, protetta dalle alluvioni e che sopravvive grazie all’agricoltura sostenibile. Quando ho saputo che Babcock era stata colpita da Ian, ho contattato Syd Kitson, l’imprenditore che ha costruito la comunità. Mi ha dato buone notizie: “La corrente elettrica e la connessione internet non sono mai mancate. I danni sono minimi. Non c’è stata nessuna inondazione”.

Ma le cose non vanno sempre come dovrebbero. Il sole, le tasse basse e la possibilità di fregarsene del futuro attirano molte persone, soprattutto gli anziani che vogliono vivere al caldo. Ne arriveranno tante altre che non sono preoccupate della qualità dell’acqua o della crisi assicurativa. La macchina da crescita della Florida ha superato molte tempeste e supererà anche questa. Ma sarebbe bello se Cape Coral e il resto della costa potessero, per usare uno slogan del presidente Joe Biden, “ricostruire meglio”. ◆ as

Michael Grunwald è un giornalista statunitense. Ha pubblicato The swamp: the Everglades, Florida and the politics of paradise.

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Questo articolo è uscito sul numero 1482 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati