Di recente sono stato in una gigantesca sala di danza. Una delle dodici che si trovano in cima a un nuovo grattacielo avveniristico, a nord del fiume Han a Seoul, la capitale della Corea del Sud. L’edificio è la sede dell’azienda Sm Entertainment, che si vanta di aver inventato uno dei movimenti culturali più potenti del ventunesimo secolo: il k-pop, il fenomeno della musica pop coreana.

Ogni generazione crea delle fabbriche di successi a sua immagine. L’universo culturale della Sm è l’intuizione di un imprenditore di nome Lee Soo-man. Dopo una breve carriera da cantante e dj, negli anni ottanta Lee era andato a studiare ingegneria informatica negli Stati Uniti ed era tornato a Seoul “con il sogno di portare la musica coreana sul palcoscenico globale”. Nella sala da ballo, suo nipote Chris Lee, amministratore delegato dell’azienda, mi racconta come il sogno si è trasformato in realtà. Prima gli idol (idoli), cioè i giovani artisti di successo, del k-pop hanno conquistato le classifiche asiatiche e poi, dopo lo straordinario successo dei Bts (la band che ha venduto di più nel mondo negli ultimi due anni, prodotta dall’azienda rivale Hybe), sono arrivati in ogni angolo del pianeta. Ogni anno nuovi componenti di boy band e girl band, dagli undici anni di età in su, sono messi sotto contratto dalla Sm, e questo grattacielo diventa la loro casa virtuale. L’edificio è stato progettato come uno spazio aperto verso l’esterno: ogni stanza è un palcoscenico per conferenze stampa, chat con i fan e trasmissioni dal vivo in rete. Un piano ospita “la casa degli artisti”, dove gli idol possono rilassarsi o cucinare (mentre i fan osservano e gridano all’esterno), in un altro c’è un song camp dove compositori e autori di tutti i paesi del mondo collaborano per creare uno stile musicale globale.

Come un marchio

“Una delle cose che diciamo ai nuovi talenti”, spiega Lee, “è che stanno rappresentando il Paese. Se fai parte di una squadra olimpica devi allenarti. Lo stesso vale qui. Per essere i migliori del mondo, devono lavorare tanto. Imparano a conoscere i mezzi d’informazione e a gestire i rapporti con la stampa, studiano le lingue in modo da poter comunicare con il pubblico di paesi diversi. Gli insegniamo anche a lavorare sulla loro personalità”.

Tra i prodotti di maggior successo sfornati da questo sistema c’è Taeyong, che si unisce a noi. Taeyong è il leader di un gruppo che si chiama Nct 127 (Nct sta per neo-cultural technology, tecnologia neo culturale, mentre 127 è la longitudine di Seoul). L’ultimo album degli Nct 127, Sticker, è arrivato al terzo posto della classifica della rivista Billboard negli Stati Uniti. Come tutti i componenti di queste band, Taeyong ha la struttura ossea e l’incarnato senza imperfezioni di un avatar, e una specie di vulnerabilità androgina. Racconta che una decina di anni fa è stato notato in strada a Seoul per il suo aspetto dai talent scout della Sm. “All’epoca Taeyong non ballava molto bene”, dice Lee. “Non sapeva neanche rappare. Ora è il ballerino migliore e un grande rapper. Ha vissuto in questo edificio, in quella sala prove”.

Taeyong ha 27 anni, anche se ne dimostra diciassette. Essere leader degli Nct 127 è una grande responsabilità. Il segreto di tutte le band del k-pop è la loro accessibilità: Taeyong è in contatto costante con la comunità dei fan, anche attraverso un metaverso digitale, una specie di paradiso per videogiocatori in cui chi vuole può incontrare gli avatar degli idol (due anni fa, la Sm ha lanciato una nuova band, Aespa, formata da quattro ragazze reali e quattro virtuali, ognuna con una storia personale e una vita online). Questo desiderio di ubiquità non riguarda solo il web. “Gli Nct 127 sono una delle band più importanti del pianeta”, dice Lee. “Ma fisicamente sono solo nove e sono in Corea del Sud. Non possono essere in ogni parte del mondo in ogni momento”. Ecco perché oggi ci sono degli Nct in Cina e si sta pensando di lanciare altri gruppi in tutto il mondo. Le boy band come un franchising? “Non un franchising, un marchio culturale”.

Da sinistra: una scena della serie televisiva Playful kiss; la famiglia protagonista del film Parasite; una scena di Hello, my twenties! (Group Eight, CJ entertainment, Barunson E&A/Eagle pictures, Academy two, Celltrion entertainment)

Anche prima della pandemia di covid-19 la Sm organizzava concerti online dei suoi gruppi usando la realtà virtuale e gli ologrammi. Ora l’obiettivo è “una versione 2.0 di un evento in streaming”. Qualche tempo fa c’è stato uno spettacolo dal vivo con vari artisti della Sm a cui hanno assistito 56 milioni di persone collegate da tutto il mondo.

I genitori, dice Lee, possono stare tranquilli: i loro figli sono in buone mani. “Nelle canzoni non parliamo di sesso, droghe o discoteche. Non vendiamo brutti sogni ma buoni modelli”. L’esercito dei fan del k-pop viene invitato non tanto a desiderare sessualmente i suoi idoli quanto a proteggerli. Ci sono stati famosi casi di star del k-pop che si sono tolte la vita dopo essere state vittime di aggressioni online. I fan dei Bts e degli Nct non solo controllano i post sul web e presentano azioni legali contro i detrattorii e i troll, ma cercano di fare beneficenza a nome dei propri idoli. Nel 2021 i Bts hanno parlato del cambiamento climatico alle Nazioni Unite. Il k-pop si rivolge, facendo grandi profitti, a una generazione interessata non tanto a ribellarsi quanto ad affermare princìpi come la gentilezza e l’inclusione.

Prima di lasciare gli studi, Lee proietta una fotografia che mostra dove tutto è cominciato. Era stata pubblicata su un numero dello Shanghai Evening Post del 2000. Gli H.O.T., la boy band numero uno della Sm Entertainment, avevano appena tenuto il loro primo concerto a Pechino e il titolo del giornale parlava di hallyu, l’onda coreana. “C’è un aspetto molto interessante in questa fotografia”, dice Lee, ingrandendo alcune persone del pubblico cinese con la bandiera coreana cucita sugli zainetti. “C’è una sola spiegazione per questa scelta: quei ragazzi sentono, forse per la prima volta, che la Corea è fica”.

Da sinistra: serie tv coreane distribuite su Netflix Crash landing on you,The school nurse files e Sweet home (Netflix (3))

Lo tsunami

La mia visita alla fabbrica del k-pop faceva parte di un rapido tour di Seoul – in ossequio al principio cittadino del ppalli-ppalli (fuggi-fuggi) – per capire dove è cominciata questa onda coreana e cercare di anticipare dove potrebbe nascere la prossima. I risultati della nuova immagine coreana non riguardano solo la musica, ma anche il cinema, i videogiochi, la tv, la moda e la cucina. In passato, osserva Lee Soo-man, il soft power più efficace, cioè la capacità di creare consenso attraverso la persuasione, senza ricorrere alla forza, è sempre stato preceduto dalla costruzione di un impero economico, come nel caso delle esportazioni culturali del Regno Unito e degli Stati Uniti. Il modello coreano, invece, funziona all’inverso: “Prima la cultura, poi l’economia”. Diffondere l’idea che “coreano è fico” permette poi alle imprese come Samsung, Lg, Hyundai e Kia di raccogliere i frutti sui mercati internazionali.Fin dai tempi di Elvis, è risaputo che non esiste amore più ardente di quello degli adolescenti per gli idoli del pop. Uno dei grandi meriti dei governi sudcoreani è stato capire che questa passione poteva essere sfruttata come uno strumento al servizio del paese. L’obiettivo è stato reso ancora più urgente dall’instabile equilibrio geopolitico della penisola. Durante il mio viaggio ho passato una giornata all’interno dell’area demilitarizzata al confine con il nord e ho osservato con il binocolo i nord­coreani che si facevano gli affari loro in remoti villaggi montani. È qui che si assiste all’espressione più brutale e diretta dell’hallyu. Da decenni le nazioni rivali si bombardano a vicenda con messaggi di propaganda all’altoparlante. Dal nord partono di tanto in tanto canti di lode a Kim Jong-un. Dal sud negli ultimi anni il motivo dominante è stato il k-pop dei Bts, degli Nct e delle Girls’ Generation sparato a tutto volume da altoparlanti enormi.

Secondo alcuni transfughi nordcoreani, il bombardamento pop funziona. Nonostante la censura totale imposta ai mezzi d’informazione stranieri, sembra che le canzoni del k-pop siano diventate dei tormentoni irresistibili a Pyongyang. I loro testi soavemente sovversivi sono stati definiti “cavalli di Troia culturali”, al pari dei contagiosi k-drama contrabbandati su cd e pennette usb. “Al nord, le serie e i film parlano sempre di fare sacrifici per il leader”, osserva il transfugo Lee Je-son. “Oltreconfine, invece, incredibilmente, si vedono personaggi che fanno sacrifici per amore”. Alcuni osservatori hanno fatto il paragone con il ruolo del samizdat e dei Velvet Underground nel crollo della cortina di ferro. Ci sono motivi di credere che l’hallyu stia avendo un effetto simile, soprattutto alla luce degli agghiaccianti resoconti sulle esecuzioni pubbliche dei funzionari di partito sorpresi con i cd contrabbandati dal sud.

L’idea che il fenomeno dell’hallyu sia riuscito a penetrare anche la società più chiusa del mondo deve aver convinto i creativi sudcoreani che non esiste una fortezza inespugnabile per i loro prodotti. In The birth of Korean cool (La nascita del cool coreano), la giornalista coreano-statunitense Euny Hong cita le parole dell’influente critico culturale Lee Moon-won sull’audacia di questa impresa: “Pochissimi paesi hanno provato a vendere la loro cultura pop agli Stati Uniti”. Per una decina d’anni, mentre il k-pop e i k-drama diventavano popolarissimi in Asia, questa ambizione ha incontrato un’ostinata resistenza. L’improbabile detonatore dell’onda coreana nel mondo anglofono è stato Gangnam style, il tormentone del 2012 del rapper Psy di Seoul, diventato il primo video a totalizzare un miliardo di visualizzazioni su YouTube. Gangnam style, una critica pungente alle pretese della nuova élite di Seoul ossessionata dalla chirurgia plastica, ha dato voce a uno spirito leggero e irriverente, in contrasto con l’immagine convenzionale seriosa e melodrammatica della cultura coreana. Era la dimostrazione lampante che il senso di autocompiacimento occidentale per il presunto monopolio dell’ironia e delle sfumature era stato sfidato. Il successo globale del rap di Psy può essere considerato uno dei tanti clamorosi alti e bassi che hanno caratterizzato la storia coreana (la penisola è stata invasa e colonizzata molte volte, ma non ha mai violato il territorio dei paesi vicini). Dopo la guerra degli anni cinquanta, la Corea del Sud era tra i paesi più poveri al mondo. Attraverso un misto di autoritarismo e volontà collettiva, alla fine degli anni novanta il paese ha rovesciato le sue sorti, trasformandosi in un esempio mondiale di sviluppo tecnologico e manifatturiero.

Una conquista pianificata

Quest’ascesa si è interrotta bruscamente con il crac economico del 1997, quando il governo coreano è stato costretto a chiedere al Fondo monetario internazionale un prestito di emergenza di 57 miliardi di dollari. Quella data è nota ancora oggi come la giornata dell’umiliazione nazionale. Per ripagare il debito sono stati fatti numerosi sacrifici collettivi, tra cui una raccolta dell’oro che ha visto decine di migliaia di cittadini donare le loro fedi nuziali per la causa.

I cineasti hanno imparato dalla Hollywood degli anni settanta

La credibilità della Corea come paese in cui investire era ancora un grande problema per il governo di Seoul. L’ex presidente Kim Dae-jung decise quindi che serviva un gigantesco sforzo per rifarsi un’immagine. Secondo un ministro citato nel libro di Hong, “Kim era sbalordito dai ricavi che gli Stati Uniti facevano con i film e il Regno Unito con i musical a teatro. Perciò ha preso i due paesi come punti di riferimento per la creazione di un’industria della cultura pop in Corea”.

Dopo la crisi, il presidente creò un nuovo ufficio per i contenuti culturali finanziato da investimenti pubblici e privati di svariati miliardi di dollari per promuovere i settori dell’arte e della creatività. Questo sforzo è stato galvanizzato dalla grande domanda di prodotti culturali giapponesi (se c’è una cosa che unisce i coreani, è il ricordo del brutale dominio imperiale giapponese). La spinta a eclissare il pop e il cinema giapponesi con la cultura locale è diventata un’ossessione nazionale. I coreani hanno cominciato a cantare e sembra che non riescano più a smettere. Nel 2009 la prima edizione di Superstar K, la versione coreana di Britain’s got talent, ha ricevuto più di settecentomila domande di partecipazione alle audizioni. Alla quarta stagione del 2012, il numero era salito a due milioni.

L’altro pilastro del programma di rinnovamento d’immagine del governo coreano è stato l’investimento nel futuro digitale. Nel 2010 la banda larga è arrivata in quasi tutte le case dei cittadini. Una delle conseguenze di questa adozione precoce della tecnologia è che l’onda coreana tende a sfumare la distinzione tra mondo reale e virtuale. Proprio come le star del k-pop, che esistono sia sui palchi dei concerti sia in un metaverso immaginario, gli e-sport fondono la competizione nel mondo reale con i videogiochi online. Quando sono stato a Seoul ho visitato la futuristica sede della T1, il Manchester United degli e-sport, nel quartiere di Gangnam. Come nel k-pop, la T1 ingaggia e coltiva star adolescenti per la sua invincibile squadra di League of legends, un videogioco online multigiocatore. I giocatori sono invitati a interagire con eserciti di fan online, prima e dopo le partite trasmesse in streaming che riempiono gli stadi in orari seminotturni (i pasti alla T1 sono sempre serviti in ritardo: la colazione è all’ora di pranzo, la cena è dopo mezzanotte). Si dice che Faker, nome d’arte di Lee Sang-hyeok, la star della T1 che somiglia più a Harry Potter che a Cristiano Ronaldo, di recente abbia rifiutato un’offerta da venti milioni di dollari per giocare in una squadra rivale.

Tradizioni contemporanee

Oltre all’interattività virtuale, però, nella cultura coreana c’è anche un forte senso della tradizione. Una sera, a Seoul, sono stato a cena con Shim Toung-soon, 84 anni, una celebrità della cucina nazionale. Si è presentata nel ristorante della figlia indossando un abito di seta tradizionale. Per cinquant’anni Shim è stata la grande promotrice della cucina coreana, trattata a lungo come una sorella minore della grande cucina mondiale e oggi considerata una prelibatezza dalle proprietà antiossidanti degna delle stelle Michelin.

Al centro di questa rivoluzione c’è il kimchi. La ricetta del cavolo speziato occupa un posto speciale nel cuore del paese, anche per il ricordo condiviso del kimjang, il rito autunnale collettivo durante il quale i coreani massaggiano tinozze piene di foglie di cavolo con pepe rosso, sale, aglio, zenzero e pasta di acciughe. È stato il kimchi, lasciato fermentare sottoterra in vasi di argilla, che ha permesso ai coreani di superare gli inverni più duri della sua storia dilaniata dalle guerre.

Shim ha girato per tutto il paese e ha raccolto decine di ricette diverse di questo piatto, alcune risalenti addirittura al quindicesimo secolo. La sua salute mentale e fisica, dice, è merito dei sottili equilibri e contrappesi della cucina coreana. Questa fiducia virale nelle proprietà salutari del kimchi è diventata globale, insieme al k-pop, durante il covid. Tra una lezione e l’altra sull’importanza dell’alimentazione per un matrimonio fertile, Shim si lancia in una lunga e appassionata disquisizione sull’inferiorità della versione cinese e giapponese del kimchi. A un certo punto della magnifica cena ha un breve attacco di tosse. La colpa, dice, è di una sfoglia di parmigiano, un ingrediente estraneo che la figlia ha aggiunto alla vera ricetta coreana delle costolette grigliate.

Se la cucina coreana celebra l’autenticità delle sue origini, gran parte della cultura del paese è felicemente ibrida. A settembre è stata inaugurata la prima fiera d’arte Frieze a Seoul, che ne ha consolidato lo status di capitale artistica del sudest asiatico. Dieci anni fa il critico Lee Moon-won affermava che “i coreani non sono bravi con la creatività”. Ma come negli anni novanta le tigri asiatiche hanno importato, copiato e infine superato l’eccellenza manifatturiera occidentale, gli artisti coreani hanno importato e trasformato il concetto occidentale di cool.

I risultati di questo sforzo si vedono soprattutto nel cinema. Mentre Hollywood continua a riciclare serie Marvel sempre più ritrite, i cineasti coreani hanno imparato la lezione della Hollywood degli anni settanta, portando al grande pubblico film d’autore più profondi e riflessivi. Parasite di Bong Joon-ho è stato un clamoroso successo agli Oscar, il primo lungometraggio in lingua straniera a vincere il premio per il miglior film, non per particolari meriti se non per il suo racconto straordinariamente contemporaneo e la capacità di lanciare messaggi forti su temi quasi ignorati dalla maggior parte del cinema statunitense, come disuguaglianza, conflitti di classe, povertà ed eccessi. Anche Squid game, grande successo di Netflix, è stata una ventata d’aria fresca con la sua descrizione giocosa, compulsiva e brutale del capitalismo contemporaneo. È stata la prima serie non in lingua inglese ad arrivare in cima alle classifiche globali di Netflix, frantumando tutti i precedenti record della piattaforma: nel primo mese di programmazione ha totalizzato 1,65 miliardi di ore di visualizzazioni, contro i 625 milioni della prima stagione di Bridgerton, che deteneva il primato precedente.

Questo successo sta aprendo la strada ad altre esportazioni coreane. Mentre ero a Seoul, Avvocata Woo, una nuova serie completamente diversa da Squid Game, è balzata a sorpresa al primo posto delle classifiche globali di Netflix, scavalcando l’attesissimo e pubblicizzatissimo adattamento di Sandman di Neil Gaiman. La star della serie, Park Eun-bin, ha cominciato a fare l’attrice in tv 27 anni fa, da bambina, e mi ha raccontato di quanto è stato gratificante arrivare al pubblico internazionale.

“È fantastico che oggi riusciamo a condividere tanti aspetti della Corea con il mondo”, mi ha detto Park. La produzione aveva la consapevolezza che per conquistare nuovi spettatori, anche in occidente, non bisognava modificare nulla. “Quello che funziona qui funziona anche fuori”.

Bang Jinah è la direttrice del Servizio di cultura e informazione coreano. In tredici anni ha visto l’onda trasformarsi da una piccola increspatura a uno tsunami. “Il grande cambiamento c’è stato una decina d’anni fa”, dice. “Prima, sulla stampa si parlava della Corea quasi solo per questioni legate alla difesa. Oggi invece è tutto un parlare di cultura: pop, classica, cinema coreani. E in questo arco di tempo il numero degli articoli è triplicato”.

Le cito un indicatore interessante, il Good country index, che ogni anno cerca di quantificare l’efficacia di ciascun paese nel proiettare all’esterno un’immagine positiva di sé. L’anno scorso la Corea del Sud era al sesto posto della lista dei paesi culturalmente più influenti a livello globale (il Regno Unito era al ventitreesimo). Bang sorride. Lo sforzo del suo dipartimento, dice, è stato proprio cercare di imitare il British council e la Bbc, pionieri del soft power. Rimane sorpresa quando le dico che il governo britannico sembra intenzionato a far morire di fame i suoi modelli di maggior successo, indebolendo la Bbc, tagliando il budget del British council, accusato di essere eccessivamente woke, troppo attento al politicamente corretto, e sopprimendo i corsi universitari creativi e di design. “Perché?”, chiede. “E che ne so”, rispondo. Immagino, però, che sia questo il bello delle onde: quando una monta, ce ne sono tante altre che si ritirano. ◆fas

Da sapere
Dopo la strage di halloween

◆ “L’orario della prima chiamata d’emergenza che ha denunciato la pericolosità dell’affollamento a Itaewon, quattro ore prima del disastro, è diventato il simbolo della negligenza dello stato”, si legge sull’Hankyoreh, che si chiede: “Stiamo assistendo alla nascita della generazione 6 e 34? O si tratta forse di un movimento?”. Il numero è diventato onnipresente nelle veglie successive alla tragedia di halloween, quando 158 ragazze e ragazzi sono morti nella calca. Il Korea Herald scrive che nell’ultima manifestazione sono scese in piazza 250mila persone (25mila per la polizia), tra cui alcuni parlamentari delle opposizioni, e che alcuni slogan chiedevano le dimissioni del presidente Yoon Suk-yeol, in carica da appena sei mesi. “Chi ha partecipato all’atmosfera carnevalesca di quella notte voleva solo fuggire dall’incubo neoliberista che i giovani chiamano inferno Joseon”, si legge ancora sull’Hankyoreh. Joseon è il regno coreano a cui si fa risalire gran parte della cultura e delle regole sociali contemporanee. Secondo un sondaggio del 2019, quasi l’80 per cento dei ragazzi vuole espatriare. In quell’anno è uscito Parasite, un film che racconta la precarietà, l’esclusione sociale e l’assenza di speranza. Nel 2021 Squid game, la serie tv che ha acceso i riflettori sui debiti devastanti, il violento individualismo e la competizione spietata a cui sono sottoposti i coreani, completa la descrizione della società con cui si confronta chi nasce e cresce in Corea del Sud.


Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1488 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati