Anche se è sotto il controllo dell’esercito russo, la regione di Cherson, sul mar Nero, non è più filorussa né è il feudo dei partiti amici del Cremlino. Oggi i suoi simboli sono un ragazzo con una bandiera ucraina su un carro armato russo e una donna che ordina a un occupante di lasciare immediatamente la sua terra e gli consiglia di mettersi in tasca dei semi così sulla sua tomba crescerà qualcosa.

Ma a Cherson le bandiere ucraine non sventolano solo nei cortei. Continuano a essere issate nelle sedi delle amministrazioni locali, i cui dirigenti hanno registrato e pubblicato dei video per far sapere che sul territorio sono ancora in vigore la costituzione e le leggi dell’Ucraina e per chiedere ai cittadini di non provocare l’esercito russo. I servizi municipali, gli ospedali, i programmi di soccorso funzionano a pieno regime. Si seppelliscono i militari ucraini uccisi. Di giorno i residenti lavorano per ripristinare le infrastrutture e gli alloggi danneggiati, di notte pattugliano le strade, proteggendo le case dai saccheggiatori.

Allo stesso tempo, però, la città è assediata dai militari russi, che si comportano con estrema arroganza: derubano i contadini, rapinano i negozi, distruggono le auto e sono indifferenti alle vittime civili. Nel sud dell’Ucraina la Russia controlla gli ingressi nelle città, i perimetri dei centri urbani, le autostrade e le stazioni ferroviarie, e non sembra aver fretta di mettere in piedi delle amministrazioni sue per gestire le aree conquistate o dei comandi di polizia militare per mantenere il regime di occupazione. Per questo molti si chiedono cosa i russi intendano fare con i territori “liberati”. La domanda non vale per le zone occupate nell’est del paese: già il 3 marzo i leader delle pseudo-repubbliche di Donetsk e Luhansk hanno firmato dei decreti che sancivano l’ingresso dei territori conquistati “nelle aree d’influenza e di responsabilità” dei separatisti.

A Cherson e nel sud dell’Ucraina, invece, la situazione è diversa. Nessuno parla più di Novorossija (la tentata federazione tra le repubbliche di Donetsk e Luhansk). E l’annessione dei nuovi territori alla Crimea, ormai “parte della Federazione Russa”, non sarà facile, anche se il leader locale Vladimir Konstantinov coltiva il sogno di far rivivere il governatorato zarista della Tauride, che comprendeva, oltre alla penisola, le città di Melitopol e Berdjansk. Anche il tentativo di creare un’altra pseudo-repubblica separatista a Cherson è fallito prima di cominciare. Così gli invasori si sono ritrovati con migliaia di persone in piazza che sventolavano le bandiere ucraine, una mobilitazione che ha dato il via alle proteste in tutta la regione. I “liberatori” russi non sono neanche riusciti a farsi immortalare mentre distribuivano aiuti umanitari. L’affluenza a questa messa in scena di pura propaganda è stata bassissima.

Mancano le risorse

Per spiegare la natura ibrida di questa occupazione ci sono diversi motivi. Dalla Crimea l’esercito russo si è diretto verso Cherson, senza quasi incontrare ostacoli. In seguito ha affrontato cinque giorni di scontri per il controllo del ponte Antonovskij, sul fiume Dnepr. I soldati russi non sono entrati nelle città e nei villaggi per portare avanti la loro guerra lampo. Poi sono stati affiancati dalla guardia nazionale russa, che avrebbe dovuto sostenere le nuove amministrazioni. Ma il personale non è sufficiente per tutti i centri abitati.

In primo luogo, la Russia non ha a chi delegare compiti e poteri (nel 2014 in Crimea bastava fare la fila per avere un posto nell’amministrazione russa). Inoltre, i nuovi funzionari non verrebbero accettati dalla popolazione o, semplicemente, sarebbero uccisi.

In secondo luogo, Mosca non ha le risorse finanziarie per mantenere i territori conquistati, soprattutto viste le attuali difficoltà economiche e finanziarie. Tutti i servizi nei territori “liberati” dalla Russia sono ancora garantiti dai governi locali ucraini che, dopo la riforma del decentramento, stanno affrontando bene questo test inatteso. Infine, è probabile che il Cremlino non intenda istituire amministrazioni sotto il suo controllo nei territori occupati. Farlo, infatti, vorrebbe dire ufficializzare l’occupazione, e di conseguenza dover applicare il diritto internazionale umanitario.

Tuttavia, fa notare il viceprocuratore generale dell’Ucraina Gunduz Mammadov, “l’articolo 42 della convenzione dell’Aja del 1907 stabilisce che un territorio è da considerarsi occupato quando è controllato da un esercito straniero. Per questo Mosca è tenuta comunque a rispettare le norme delle convenzioni di Ginevra per la protezione della popolazione civile”.

La tattica di limitarsi a un controllo indiretto è stata applicata dalle truppe russe anche ad alcune infrastrutture e aziende statali nel sud del paese. Le hanno in pugno, ma non le gestiscono direttamente. L’esempio più allarmante è la centrale nucleare di Zaporižžja, assediata da veicoli corazzati e militari di Mosca. Per ora, quindi, la principale conquista dei russi è stata l’accesso alle acque del fiume Dnepr. Mosca ha preso il controllo del canale della Crimea settentrionale, sbloccando il flusso d’acqua dal Dnepr verso la penisola.

Cosa aspettarsi quindi dall’esercito russo? Nelle città in cui si svolgono quotidianamente proteste contro l’occupazione, gli agenti dei servizi di sicurezza russi sono già all’opera. Raccolgono informazioni e pianificano operazioni speciali. Bisognerà essere preparati alle provocazioni e sapere che alcune persone saranno fatte sparire. Il 7 marzo è arrivata la notizia della scomparsa di un manifestante, Aleksandr Tarasov. Il punto è che le proteste nelle città occupate, le cui immagini stanno facendo il giro del mondo, oltre a irritare i russi, non rientrano nella loro mentalità. Perciò gli spari contro i manifestanti pacifici aumenteranno giorno dopo giorno. Chi ha scelto la resistenza civile lo sa. ◆ ab

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Questo articolo è uscito sul numero 1451 di Internazionale, a pagina 31. Compra questo numero | Abbonati