Il dormitorio 16, su via Bogdan Petriceicu Hasdeu, era di gran lunga il più famoso di Cluj. Secondo i miei calcoli, era nella top five nazionale. Era conosciuto anche come “il barile di sperma” e stava appollaiato in cima alla strada allora più celebre del quartiere studentesco, nota anche come la via del vomito.

Il dormitorio 16 era il più grande, somigliava a un albergo a due stelle di dieci piani a Mamaia e si era trasformato in una sorta di cittadella della mascolinità transilvana. Qui si riunivano ragazzi da ogni angolo della regione, ma anche da altre zone della Romania: Bucovina, Moldavia, Banato e perfino Bessarabia. Era una specie di casa temporanea, un posto di passaggio, una fortezza cittadina per giovani studenti.

Il dormitorio 16 era il più grande. Era una specie di casa temporanea, un posto di passaggio, una fortezza cittadina per giovani studenti

Già dall’ingresso si percepiva chiaramente che il posto era riservato ai maschi: i dormitori dei ragazzi avevano un odore diverso da quelli femminili. Puzzavano come una stalla, una grotta o una caserma fuori controllo, con il sudore e la sporcizia che rivelavano la presenza maschile. I dormitori femminili avevano un profumo domestico, che ricordava l’aria di casa. Per questo quando un ragazzo entrava in un dormitorio femminile diventava subito un timido agnellino, anche se nel dormitorio 16 ruggiva come un leone. Perché? Perché dormitori femminili gli ricordavano la mamma e la nonna: bastava questo a trasformare ogni bruto violento, ogni maschio feroce in un fragile cucciolo che ispirava tenerezza. Le ragazze li accoglievano e li rimpinzavano di cuoricini e sentimenti materni.

Il professor Codoban, che sarebbe diventato il supervisore di un dottorato che non ho mai concluso, teneva quello che all’epoca era il corso più seguito dell’università Babeș-Bolyai: ermeneutica dell’amore. Durante le lezioni, in cui c’era sempre la fila per entrare, diceva: l’uomo è una lettera che viaggia dalla madre alla moglie. E in effetti nei dormitori la cosa si percepiva perfettamente. In realtà, i giovani uomini dell’università non erano esattamente delle “lettere”, come voleva la filosofia strutturalista e post-strutturalista francese di moda allora, ma più che altro degli animali domestici – come da tradizione transilvana erano la prima o al massimo la seconda generazione di cittadini inurbati – che era meglio non lasciare da soli, perché avevano l’abitudine di trasformare tutto, perfino la loro vita, in un dormitorio universitario.

Oggi si direbbe che il dormitorio 16 era un tempio della mascolinità tossica, ma all’epoca questi termini non esistevano e le prospettive erano diverse. Il mondo era tossico per natura, ma che questo fosse un problema non ci passava neanche per la testa: eravamo convinti di vivere nella libertà totale, nell’epoca delle possibilità, e la felicità ci sembrava a portata di mano, proprio nella via del vomito. Sarebbe arrivata entro pochi minuti.

Quando entrai per la prima volta nella stanza dei miei amici, mi spaventai. Con otto anni di esperienza negli studentati del paese, avevo già conosciuto molte stanze di ragazzi. Ma ciò che notai nel tempio degli studenti di Cluj mi terrorizzò. C’era una sporcizia che avevo visto solo in alcuni film statunitensi e russi.

Ovunque erano sparsi vestiti non lavati da mesi. Ogni tanto una calza spaiata appariva sul pavimento, sul tavolo o sul davanzale. Le calze avevano superato da tempo la fase in cui avrebbero avuto bisogno di fare conoscenza con l’acqua: ormai avevano sviluppato un proprio microcosmo complesso, che si annunciava con un odore deciso. I bagagli erano disfatti e il loro contenuto era sparso per tutta la stanza, simbolo del caos più totale. Sul tavolo c’erano barattoli aperti, formaggio ammuffito, pezzi di cipolla decomposti, lardo tagliato a fette in occasione di una festa di qualche mese prima e lasciato lì a sciogliersi e a incrostarsi. Se spostavi qualcosa, scoprivi gli strati di tutte le feste o delle visite precedenti, con ogni tipo di menù possibile, il tutto già ricoperto da strati geologici di muffa: l’estetica di un ordine naturale, tipico della cultura della decomposizione.

Ovunque c’erano bottiglie, soprattutto di birra, che dominavano l’ambiente e davano l’idea delle preferenze alimentari degli inquilini (in Germania, non dimentichiamocelo, la birra è considerata un alimento). Bisognava fare attenzione a dove si mettevano i piedi, per non scivolare su una bottiglia o pestare un posacenere traboccante, improvvisato con un piatto o una scatola di conserva. Quei posacenere non erano solo pieni, spesso straripavano come montagne create dai movimenti della crosta terrestre.

Tra tutti questi strati geologici composti da bottiglie, calze e resti alimentari, si vedevano libri, quaderni e fogli fotocopiati o gli appunti delle lezioni. Dai libri si poteva dedurre a quale facoltà appartenessero gli inquilini di ogni stanza.

I quattro letti – che dopo il 1990 erano diventati quasi sempre sei – disposti ai quattro angoli non erano mai stati rifatti da quando la stanza era stata assegnata agli studenti, alla fine di settembre: le lenzuola non si usavano più ormai da tempo, perché sarebbe stata una mancanza di rispetto per l’ambiente circostante. Il bianco, del resto, era un colore impossibile da vedere attraverso il denso fumo che si respirava nel dormitorio 16.

“Dove dormirò?”, chiesi spaventato e preoc­cupato.

Adi Schiop mi guardò a lungo, con un occhio leggermente chiuso, e disse flemmatico: “Non spaventarti, è solo la massa critica della sporcizia. Se la sporcizia nella stanza supera la massa critica, diventa inutile provare a mettere ordine nel caos. E così la zozzeria cresce esponenzialmente. La teoria della massa critica si collega a quella dei circoli viziosi e virtuosi di Putnam. Se ne può uscire solo grazie all’intervento di un fattore esterno, come la visita di parenti o di partner sessuali”.

Adi, un tipo che era troppo pigro perfino per parlare, aveva un ottimo spirito di osservazione e, anche se apriva bocca di rado, interveniva sempre con argomenti pertinenti e un umorismo sofisticato e irritante. Questo, naturalmente, quando era sobrio.

Studiava psicologia, anche se allora ero convinto che fosse iscritto a lettere perché girava sempre con un gruppo di studenti di filologia. Noi che facevamo filosofia disprezzavamo profondamente le comitive letterarie e di filologi. Ci sembravano degli sciocchi con pretese di genialità, convinti che l’ispirazione fosse qualcosa di divino. Con loro non avevamo niente di cui parlare.

Secondo le teorie del nostro gruppo, i letterati avevano completamente rovinato la riflessione e il pensiero critico nella cultura romena. E loro ci disprezzavano per le nostre arie da filosofi sofisticati e inutilmente complicati. Le due tribù si guardavano reciprocamente con profondo disprezzo, fino a quando non si ritrovavano davanti a una birra o nel dormitorio 16. Insomma, gli studenti di lettere e filosofia non avevano colpe, ma noi dovevamo combattere una battaglia. Più tardi, Adi si sarebbe vendicato del nostro gruppo, che si chiamava Philosophy & Stuff, ironizzandoci in uno dei suoi romanzi e nel libro pe bune/pe invers (sul serio/al contrario). Ma questo successe in un’altra vita.

A un certo punto avevo sentito dire che Adi era andato a lavorare in Nuova Zelanda. Era stato tra i primi a partire. Lo aveva fatto per fame, perché in Romania lo stipendio da insegnante di scuola era così basso che non bastava nemmeno per il pane, e in più Cluj stava diventando carissima.

Adi era, come me, figlio d’intellettuali di campagna, nato nella zona intorno a Sibiu e cresciuto a suon di ripetizioni, lezioni e studio per sfuggire alla povertà. Nel vecchio regime era così che si scappava dalla povertà e dalla vita nei campi: con l’istruzione. Solo che poi era arrivato il 1990 e noi ci eravamo ritrovati a non saper far altro che leggere, pensare, scrivere, commentare e criticare il potere, qualunque fosse. Nella nuova società queste cose non facevano guadagnare. Tutti gli investimenti dei nostri genitori ci si erano ritorti contro, e anche tutte le lezioni: erano più un peso che un valore da scambiare. Ora servivano altre competenze, che noi non avevamo. Sulla fronte avevamo scritto “disoccupati” o “carne da macello”. In altre parole: non contate su di noi per costruire il nuovo ordine capitalistico. Del resto, nemmeno i vecchi ci avevano contato molto. Dovevamo diventare dei perdenti professionisti, dei perdenti di classe: ci eravamo dovuti adattare al nuovo sistema come gli scarafaggi. Per nostra fortuna, nel capitalismo la spazzatura non mancava.

Adi in fondo aveva ragione. Le stanze non potevano trasformarsi spontaneamente. Quando arrivava in camera, ognuno liberava solo lo spazio sufficiente per appoggiare un bicchiere o un libro, aggiungendo un nuovo strato di sporco a quelli già accumulati.

C’erano solo due fattori che potevano scatenare una rivoluzione, cioè una pulizia totale che cambiasse radicalmente l’aspetto dell’ambiente.

Il primo era l’arrivo dei genitori di uno dei residenti. Questo generava una mobilitazione rapida ed efficiente di tutti. La famiglia funzionava ancora secondo una formula ancestrale: per quanto trasandato e pigro, lo studente di Cluj era assillato dalla paura di doversi vergognare davanti ai genitori ed era bloccato dalla pietà filiale. Tutti lo capivamo, non potevamo non capirlo, perché in fondo ubbidivamo allo stesso schema. Tanto più che molti di noi erano figli del mondo rurale o di piccoli centri urbani, dove queste gerarchie erano ancora perfettamente funzionanti. Il fatto che mamma e papà venissero a trovarci poteva fare miracoli in queste stanze apparentemente condannate alla sporcizia eterna.

Era una mobilitazione totale, anche se precaria e di breve durata, come per un esame che doveva essere superato e il giorno dopo era già dimenticato. Nell’evoluzione della stanza del dormitorio questo non produceva novità strutturali: era solo questione di giorni prima che l’entropia, le trasformazioni biologiche complesse e la puzza riprendessero il so­pravvento.

Il secondo fattore in grado di portare un cambiamento – questa volta duraturo – era l’arrivo di una ragazza che veniva a stare con uno dei residenti. Questo cambiava radicalmente la situazione. Come per miracolo quella stalla, quella grotta, quella camerata militare di sporcizia quasi violenta, e con un livello esplosivo di caos, si trasformava e diventava uno spazio curato e pulito: la sporcizia spariva, le cose assumevano un ordine e una logica. Smobilitata l’unità militare, la grotta del maschio si trasformava immediatamente in qualcosa di domestico che ricordava la mamma. E il tutto durava finché la ragazza viveva insieme a quei quattro uomini, che dalle loro madri erano scappati.

I cambiamenti in questo caso erano duraturi e coerenti. Non era più un semplice esame, ma una sorta di educazione sentimentale continua. Tuttavia, quando la coppia si separava e la ragazza lasciava la stanza, la normalità maschile tornava in tutto il suo splendore. Lo sporco e il caos riprendevano possesso dell’ambiente, e tornava a regnare l’antico ordine del dormitorio, con urla bellicose che punteggiavano la notte come simboli di liberazione e dominazione maschile totale.

Ricordo che, dopo la prima notte trascorsa in quella stanza, mi sono svegliato che stavo soffocando e gli occhi mi lacrimavano per la puzza insopportabile. Dovevo andarmene.

Angelo Monne

Lo squallore di un dormitorio a volte ha una malinconia particolare, qualcosa di profondo che ti avvicina al pensiero della morte. Quello stesso squallore ci suggeriva che anche noi ci saremmo decomposti, esattamente come gli strati di cibo rimasti sul tavolo e coperti di muffa: eravamo uomini o funghi?

Avevo cominciato a leggere un poeta che vedevo spesso a Iași, nel quartiere di Copou: somigliava un po’ al giovane Esenin. Aveva i capelli ricci – o almeno così sembrava da lontano – e gli occhi limpidi e ingenui, che però nonostante la luminosa sincerità nascondevano una sofferenza ancora libera di mani­festarsi.

Forse quella sofferenza emergeva solo nei versi. Quasi sempre il giovane teneva la testa sprofondata nel bavero del cappotto, come per nascondersi, e camminava curvo per Copou come un punto interrogativo, quasi a voler chiedere, con rabbia ma anche timidamente: che ci faccio io qui?

La sua combinazione di timidezza, sincerità e ribellione pacata ma intelligente sembrava indicare il rifiuto di partecipare al nostro mondo. A Copou il giovane poeta, che avevo preso a cuore, sembrava un predicatore fallito, sempre ubriaco o in preda ai postumi dell’alcol, che in questo nuovo far west predicava la fine del mondo in cui già vivevamo, ma che solo lui riconosceva. Non ci chiamava al pentimento, ma al rifiuto di vivere felici come degli idioti nella tragedia. Era come un piccolo profeta a me caro, Osea, che voleva vivere tutti i peccati del mondo per mostrare, come un vero vate, il declino di quello in cui viviamo.

Me ne andavo in giro per il dormitorio consigliando a tutti di leggere i versi di questo poeta sconosciuto, che mi sembrava un po’ una reincarnazione di Gheorghe Bacovia o Mihai Eminescu (due tra i maggiori poeti romeni). Il profeta di Copou si chiamava Dan Sociu. E il suo poema Fratele păduche (Fratello pidocchio) era l’inno degli anni novanta:

ogni sera torno al dormitorio, abbattuto

perché non sono ancora le undici

e io sarei rimasto ancora

io avrei bevuto ancora

con il mio amico Eugen, che ha rincorso l’ultimo filobus.

apro la porta

pregando che non ci sia nessuno in camera,

che siano andati in discoteca o da qualche parte, perché

li odio, ma forse in fondo no,

ed è strano se la stanza è vuota,

quasi quasi comincio un po’ ad amarli.

dal momento in cui mi tolgo gli scarponi

mi sento condannato,

qualcosa di irreversibile come una vasectomia,

perché fino al mattino non avrò più la forza

di muovermi,

e da fuori si sentono musiche.

Angelo Monne

mi stendo sul letto e penso ai miei vecchi amici,

a un natale senza neve,

alla festa da costel

quando siamo andati a letto ognuno con chi capitava

e ci siamo svegliati il giorno dopo con i pidocchi.

credevo di essere l’unico e mi vergognavo,

e anche gli altri lo credevano.

mihaela pensava di averli passati a sua sorella,

e io pensavo di averli presi da daniel,

che era appena uscito di prigione.

paula lo disse a mihaela,

e laura disse: anche io sono stata

a una delle vostre feste

e mi sono riempita di pidocchi.

marcel si rasò a zero,

io mi sono tagliato i capelli,

le ragazze si sono passate il petrolio in testa.

dopo qualche mese,

davanti a una birra,

ci siamo fatti coraggio e abbiamo confessato.

così abbiamo scoperto che non era daniel

che lui era uscito di prigione solo con le cimici

che la storia era cominciata da qualche parte

lontano da noi,

e in fondo tutto si spiegava con il desiderio

umano di un pidocchio solitario

di festeggiare il natale con noi.

Mi piaceva molto andare dai ragazzi che sembravano piombati nel dormitorio 16 di Cluj direttamente dalle profondità della storia, dal medioevo. Lo dico con ammirazione, non con un senso di superiorità o disprezzo: erano davvero dei ragazzi eccezionali, che ammiravo enormemente.

Valer, un mio amico originario del Maramureș, aveva avuto la fortuna di nascere a Valea lui Stan, il primo villaggio romeno in cui dopo il 1990 al bar di Hovrea era arrivato lo striptease . Era un paesino abitato da romeni greco-cattolici che erano diventati ortodossi durante il comunismo per decisione del partito, ma avevano conservato le loro tradizioni senza grandi cambiamenti. Trattandosi di un paese di montagna, la collettivizzazione e il comunismo erano arrivati solo formalmente, come i regimi precedenti. Le imprecazioni contro il potere erano rimaste le stesse, cambiava solo il destinatario: “Ringrazia il partito, che il diavolo se li porti”. Il partito cambiava, gli insulti rimanevano uguali.

Per quei tempi il villaggio era grande e prospero, perché la gente aveva accesso a pascoli e foreste e possedeva qualche capo di bestiame: molti lavoravano alla segheria della zona, altri andavano in città come stagionali per guadagnare qualche soldo in più.

La rivoluzione del 1989 aveva sorpreso tutti mentre si preparavano a macellare il maiale. Da quelle parti la gente aveva animali e palinka (l’acquavite di frutta diffusa in Transilvania) a volontà. Così avevano festeggiato anche loro, come tutto il resto del paese, anche se i contadini sono scettici per natura e hanno un profondo senso della storia: “Cambio di signori, gioia dei folli”. Ma Ceaușescu e sua moglie avevano stancato perfino loro. Nell’est del paese nessuno voleva difendere il regime comunista, nemmeno i privilegiati e i membri della nomenclatura. Era un sistema finito e totalmente privo di legittimità. “Hanno preso in giro la gente troppo a lungo!”, dicevano mentre macellavano il maiale e bevevano palinka. “Hanno avuto quello che si meritavano!”. “Forse però sarebbe stato meglio non ucciderli, perché non è cristiano!”, aggiungevano le donne più anziane, che erano in cucina a preparare la carne.

Dopo la rivoluzione tutti si aspettavano che la felicità piovesse dal cielo. Invece continuava a farsi aspettare. Così il contadino si era messo a fare quello che sapeva fare meglio: allevare animali, tagliare legna, falciare prati a perdita d’occhio e occuparsi degli affari suoi. Ma il mondo stava cambiando e i giovani non volevano saperne di quei lavori, che non bastavano a soddisfare i loro nuovi desideri. Erano apparse cose che suscitavano passioni e sogni sconosciuti, cose che i più giovani potevano ormai vedere in tv, durante le pubblicità o nei film in videocassetta. I ragazzi non si accontentavano più dell’acqua di sorgente, della palinka e della mămăligă (una sorta di polenta) quotidiana. Ora volevano della gomma da masticare e avevano strane pretese perfino sulle bevande. I soldi guadagnati nei campi non gli bastavano più, perché non erano sufficienti per comprare quello che desideravano. Il rapporto tra il costo del lavoro e il prezzo dei desideri stava diventando troppo alto: si stava creando un abisso.

Nel villaggio cominciarono ad aprire i primi negozietti con merci turche. Per articoli di qualità superiore, come jeans, scarpe da ginnastica, gonne o maglioni con la scritta Boys, si andava in città, al bazar di Bistriţa, dove si trovava tutto ciò che si poteva desiderare. Le merci turche abbondavano ovunque. Poco dopo arrivarono anche gli aiuti umanitari e i negozi di seconda mano, che si diffusero rapidamente anche nei villaggi.

La grande novità fu però il bar di Hovrea, qualcosa che non s’era mai visto nemmeno a Parigi. Chi aveva mai sentito parlare di un bar con spogliarelliste in un villaggio? Un posto del genere, all’epoca, era inimmaginabile perfino in una grande città come Cluj. Averlo in paese era davvero clamoroso.

I ragazzi di queste zone, dove la collettivizzazione non aveva attecchito, si erano conservati meglio: sembra che fossero arrivati all’università direttamente dal medioevo. E non parlo del loro livello d’istruzione o del fatto che fossero più o meno “incivili”, come piaceva dire ai cittadini di Cluj o di Timișoara. Avevano un’aria potentemente contadina, qualcosa che apparteneva a un mondo ormai scomparso quasi dappertutto. Conservavano un piglio arcaico, che contrastava fortemente con il mondo urbano.

Il comunismo era riuscito in gran parte a cancellare il ruralismo, perfino dalle campagne. Ma per ricordare come stavano le cose dobbiamo aprire una piccola parentesi: nelle città della Transilvania e quasi in tutta la regione, durante l’epoca dell’impero austroungarico le città erano dominate da etnie diverse da quella romena. È un dato storico, risultato dei meccanismi amministrativi che governavano gli imperi. Cluj era ungherese e parzialmente ebraica, Sibiu era sassone. Solo Timișoara aveva una storia diversa, con tre gruppi etnici che convivevano senza che nessuno fosse dominante. Per il resto, la maggioranza della popolazione era romena, ma prevalentemente rurale, e aveva un accesso limitato al mondo urbano.

Durante l’epoca compresa tra le due guerre mondiali, sotto l’amministrazione romena, si cercò di fare un ampio processo di romanizzazione delle città usando strumenti dell’ingegneria sociale come l’inurbamento della popolazione rurale. Ma il processo era lento. Fu accelerato durante il comunismo, per la necessità d’industrializzare, conquistare e romanizzare le città. In un arco di tempo relativamente breve, i romeni cominciarono a rappresentare la maggioranza anche nei centri urbani.

Ma i processi di assimilazione urbana sono difficili e richiedono tempo. E in Moldavia, Dobrugia e Oltenia, dove le città hanno la stessa etnia dominante delle campagne circostanti, non ci furono trasformazioni demografiche simili a quella avvenuta in Transilvania.

Quando si parla dei contadini e del loro rapporto con la città, è importante osservare alcuni fattori: i contadini della Transilvania ancora oggi considerano la città come qualcosa di estraneo alla loro identità etnica e religiosa. Perché? Perché l’hanno sempre percepita come un luogo di stranieri. Per loro gli ungheresi e i tedeschi, protestanti o cattolici e che comunque parlavano lingue straniere, erano degli estranei. Non erano migliori né peggiori, semplicemente erano altro. Per il contadino della Transilvania la città era un luogo alieno, non solo socialmente, ma anche dal punto di vista etnico, linguistico e religioso.

In Moldavia e in Oltenia, invece, l’accesso alle città non era limitato, e per i contadini il mondo urbano era estraneo dal punto di vista sociale, non etnico o religioso. Il nobile locale, il boiardo, era uno di loro, era solo più ricco, e ci si poteva parlare agevolmente, come con chi gestiva l’amministrazione.

Da qui derivano molte delle differenze di comportamento, sociali, politiche ed economiche che esistono tra le regioni della Romania. Il sud, per esempio, ha decisamente poco rispetto per il potere e la legge. Ogni regola è negoziabile. Il sud è ribelle. Dall’altra parte delle montagne c’è un altro tipo di rapporto con il potere: il bastone asburgico ha prodotto un certo rigore.

Attraversando i monti ho notato che le città della Transilvania, diventate romene piuttosto tardi e senza più gli antichi cittadini di altre etnie a causa dell’emigrazione, oggi hanno un livello di ruralità molto più accentuato rispetto ai centri olteni o moldavi, anche se spesso sono più ricche.

Quando una volta ho detto che a Cluj c’erano più contadini che in qualsiasi altra città, ho quasi rischiato di essere picchiato dai miei compagni di studentato. Ho un grande rispetto per i contadini, ma i processi sociali vanno capiti. Ci vuole tempo, ma le cose si sistemano sempre. Nelle prossime generazioni i figli dei contadini che si sono trasferiti in città, per scelta o necessità, diventeranno i ragazzi più urbani di tutti.

Per quanto riguarda il rapporto tra mondo rurale e urbano durante il comunismo, le zone in cui furono istituite le cooperative agricole di produzione e le grandi aziende collettive avevano vissuto una modernizzazione, e perfino un’urbanizzazione delle campagne, molto più profonda delle zone non collettivizzate. In queste zone si era trasformata la natura del lavoro, era arrivata la tecnologia e infine era cambiata e si era modernizzata l’amministrazione. Il lavoro collettivo nei campi in fondo era simile al lavoro di fabbrica, così i contadini erano diventati i proletari del lavoro agricolo.

Oggi, visitando villaggi di pianura e di montagna, noto ancora questo conflitto profondo tra i villaggi con un’estetica urbanizzata e quelli con uno stile spiccatamente rurale e arcaico.

L’arcaicità dei villaggi del Maramureș o di altre zone di montagna è un grande valore, perché queste comunità sono diverse tra loro e hanno mantenuto alcuni elementi che altrove sono andati persi. Il comunismo le ha conservate bene. Poi negli anni novanta sono andate distrutte o si sono modernizzate, a causa della tecnologia, del nuovo modo di lavorare e soprattutto dell’emigrazione di massa.

Il processo è cominciato con l’arrivo dei negozi, della tv via cavo, poi della Coca-Cola e successivamente dei telefonini. E si è compiuto con l’emigrazione e gli smartphone, con la loro offerta di giochi e informazioni: i villaggi sono morti. Quelli che vediamo sono solo fantasmi, luoghi spettrali. Ma questo è successo un po’ più tardi.

Nel villaggio di Valer, quello che i comunisti non erano riusciti a fare in quarant’anni – distruggere la comunità attraverso la modernizzazione – lo ha realizzato in un solo anno il bar di Hovrea con il suo striptease. La modernizzazione del villaggio è stata rapida, totale e definitiva. Una volta cominciata, non c’è stato più modo di tornare indietro.

Quando i ragazzi di campagna scendevano dai monti, avevo sempre la sensazione che arrivassero direttamente dall’ottocento. Li guardavo con un’ammirazione immensa. Conservavano una vecchia aria contadina, fatta di lavoro duro e familiarità con la natura e gli animali. Profumavano di pecora e mucca, un odore che entra nella pelle e difficilmente ne esce. Ancora oggi questi ragazzi, ormai uomini maturi, hanno l’impressione che le loro mani sappiano di mucca, di quell’odore che ti si attacca quando mungi la vacca, le dai da mangiare o pulisci la stalla. Non c’è nulla di cui vergognarsi, ma questi ragazzi si sono sempre portati dietro, una volta arrivati in città, la vergogna intima del loro odore di contadino. E la cosa li ha tormentati a lungo: volevano liberarsene il più velocemente possibile e diventare anche loro uomini di città.

“Quando andavo in discoteca in città, mi mettevo tutti i profumi possibili, ma l’odore non se ne andava. Uscivo impaurito e imbarazzato, temendo che saremmo stati scoperti e presi in giro. Forse era già scomparso da tempo, ma di certo era rimasto impresso nella nostra mente, come una paura, un imbarazzo intimo”, mi confidava un ragazzo.

Forse non ci crederete, ma pochi anni dopo quei bambini, come mi piace chiamarli, avrebbero arato l’asfalto con le mani, tanta era l’energia che avevano dentro. Erano sempre tra i migliori in ogni cosa che decidevano di fare. Da dove veniva quest’energia? Forse dal lavoro duro e disciplinato, forse dalla vergogna dell’odore di letame e latte di mucca che non li abbandonava, forse dal desiderio di separarsi da un mondo per affermarsi in un altro.

Ma nel loro cuore rimaneva sempre un pizzico di imbarazzo, di vergogna o di rabbia: la rabbia per l’odore del luogo da cui erano partiti. Una vergogna e una rabbia dignitose che davano una forza terribile. Con il tempo, avrebbero capito che in realtà quel luogo e quell’odore erano la cosa più preziosa che avevano e che li avrebbero amati per sempre. Solo che quel luogo e quell’odore non sarebbero mai più tornati, semplicemente perché non esistevano più.

Valer aveva parecchia musica a cui io non avevo accesso. Proveniva da bettole e città sconosciute.

Conosci Moşu Călin?

È partita una voce roca, una canzone manele con ritmi del Banato, credo.

Porta, moglie, l’accetta,

Che spacchiamo la televisione!

Se rubi un filo di cotone,

Ti danno l’ergastolo,

Se rubi l’intera flotta navale,

Diventi una persona di grande fama!

Uscite di nuovo sulla strada grande,

Perché non avete soldi per mangiare,

Nemmeno per pagare l’ospedale,

E se non avete soldi, morite pure. ◆ mit

Vasile Ernu è uno scrittore romeno. È nato a Odessa, in Ucraina, nel 1971. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Gli ultimi eretici dell’impero (Hacca 2012). Questo racconto è uscito sul giornale letterario romeno Scena9 con il titolo Generaţia canibală

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Questo articolo è uscito sul numero 1605 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati