Presumiamo che tutti abbiano guardato con orrore i primi missili russi che piovevano sulle case ucraine a febbraio del 2022 e i crimini di guerra commessi dai soldati del Cremlino subito dopo. La maggior parte del mondo in effetti è inorridita: centinaia di aziende hanno lasciato la Russia. Ma alcune si sono mosse nella direzione opposta: le petroliere di un gruppo di compagnie di navigazione greche si sono dirette verso i porti russi. Le tariffe per il trasporto del petrolio russo erano aumentate e i greci hanno colto l’occasione. Mentre i loro profitti crescevano, Atene ha esercitato con successo pressioni per mitigare le sanzioni. Così una flotta gestita da un gruppetto di oligarchi occidentali continua a far arrivare denaro al regime di Vladimir Putin.

Ne sa qualcosa l’economista Robin Brooks, dell’Institute for international finance (Iif), l’associazione di categoria dei servizi finanziari globali. Le sue ricerche hanno evidenziato la reale portata del coinvolgimento della Grecia nell’economia russa. La cosa inquietante, dice, è che “la Russia fa leva sulle infrastrutture di trasporto occidentali”. Il Cremlino dipende dal petrolio, il gas è una preoccupazione secondaria. Con il greggio Mosca ha guadagnato circa quattro volte di più che con il gas, incassando negli ultimi vent’anni 3.500 miliardi di dollari. La maggior parte (tra il 70 e l’85 per cento) del petrolio lascia il paese via mare. “È la fonte d’entrate più importante per la Russia”, spiega Brooks, “e la flotta greca è il fornitore principale di servizi di trasporto”.

Prima della guerra in Ucraina le compagnie di navigazione greche rappresentavano un terzo della capacità di trasporto, oggi più della metà. Il conflitto ha creato un’enorme opportunità di profitti. Una delle rotte più comuni per spedire il greggio russo parte da Primorsk, sul mar Baltico, attraversa il mar Mediterraneo e il canale di Suez, e arriva alla costa occidentale dell’India. Il prezzo del trasporto è di 7,67 dollari al barile e, secondo la società di studi di mercato Argus Media, include una “componente dovuta alle sanzioni”, quantificabile in 3,5 dollari. Questo vuol dire che una petroliera con un carico di settecentomila barili di greggio può richiedere per ogni viaggio una spesa extra di 2,45 milioni di dollari. Sono stime di Michelle Wiese Bockmann, analista della Lloyd’s List Intelligence. Secondo Bockmann, all’inizio del 2023 tra le petroliere che trasportano il greggio russo erano comuni sovrapprezzi di dieci milioni di dollari per viaggio.

Questi profitti sono il motivo per cui uno stato dell’Unione europea dà sostegno economico all’invasore russo. Il sostegno è anche diplomatico. Nel 2022 i paesi del G7 hanno cominciato a discutere di un tetto al prezzo del petrolio russo. Un embargo totale era un’idea rischiosa: abbandonare il terzo produttore di petrolio mondiale avrebbe potuto provocare un aumento dei prezzi e far entrare l’occidente in recessione. Un tetto al prezzo avrebbe limitato l’afflusso di denaro alla macchina bellica del Cremlino e ridotto al minimo le sofferenze per le aziende e i consumatori occidentali. Ma anche questo compromesso è stato respinto dalla Grecia, che ha fatto pressioni (insieme a Malta e Cipro, altri due paesi con importanti compagnie di trasporto marittimo) per bloccare la misura.

L’Unione europea ci ha messo altri sei mesi per fissare un tetto al prezzo del petrolio, in vigore dal 5 dicembre 2022. In quel lasso di tempo, secondo le Nazioni Unite, più di duemila civili ucraini sono stati uccisi dalle forze armate russe. Per mesi paesi come la Polonia hanno sostenuto la necessità d’imporre al petrolio russo un tetto di 20 o 30 dollari al barile. “Questo avrebbe inferto un duro colpo alla macchina da soldi russa”, spiega Brooks. Ma grazie a una serrata attività lobbistica condotta dalla Grecia e dai suoi alleati è stato fissato un tetto di sessanta dollari. In quel momento il greggio russo era venduto con uno sconto sostanzioso a un prezzo inferiore al tetto europeo, che quindi non ha avuto alcuna conseguenza immediata su Mosca.

Con il greggio Mosca ha guadagnato circa quattro volte di più che con il gas

Quasi tutte le compagnie di navigazione greche sono aziende private a gestione familiare, e non sembrano preoccuparsi delle implicazioni morali dei loro commerci. “Più si fa forte lo stigma sul petrolio russo, più diventa redditizio trasportarlo”, afferma Brooks. La macchia di questo commercio può essere inoltre lavata grazie a ulteriori pressioni: dopo che il governo di Kiev ha aggiunto cinque compagnie di navigazione greche alla sua lista di “sponsor internazionali della guerra”, la Grecia ha bloccato l’imposizione di ulteriori sanzioni e l’invio di altre centinaia di milioni di euro di finanziamenti militari all’Ucraina. Lo stallo è durato settimane e alla fine, dopo un intervento di Bruxelles, l’Ucraina ha deciso di sospendere la misura.

Grecia, Cipro e Malta rappresentano meno del 3 per cento della popolazione dell’Unione europea, ma sono riuscite a limitare un’azione decisiva contro l’economia russa per conto di un pugno di compagnie con una buona rete di contatti. Vale la pena di chiedersi quanto siano davvero greche (o cipriote o maltesi) queste compagnie. Gli attracchi a cui sono ancorate appartengono ad aziende petrolifere e raffinerie straniere. Le compagnie di navigazione greche sostengono da tempo che il loro contribuito al pil nazionale è pari al 7 per cento, più o meno quanto quello del settore turistico, ma nel 2015 un’inchiesta della Reuters affermava che era in buona parte “un mito” e che i trasporti via mare valgono l’1 per cento. Cosa ancora più importante, i proprietari di navi non pagano imposte societarie in Grecia. Molti scelgono Londra dove, se sono registrati come residenti non domiciliati e le loro entrate sono all’estero, non devono pagare le tasse neanche nel Regno Unito.

Non si tratta solo di un fenomeno greco. La marina mercantile al servizio di Putin dipende da istituzioni finanziarie con sede nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Secondo Bockmann, un terzo delle petroliere che trasportano greggio dalla Russia è assicurato in occidente e comunque quelle assicurate altrove sono coperte dal mercato delle riassicurazioni di Londra. Le aziende quotate in borsa raccolgono capitali a New York, mentre altre sono finanziate da fondi occidentali. Nel 2022, inoltre, sono state messe in vendita vecchie navi la cui domanda è improvvisamente aumentata. “Sono sempre più le petroliere in precedenza gestite dalla Grecia o da Cipro che ora sono di proprietà di strane società fittizie”, spiega Brooks. “C’è chi vende le sue navi a una compagnia all’apparenza legale e poi scopre che sei settimane dopo questa ha cambiato proprietario”, aggiunge Bockmann. “Lo hanno fatto tutte, dalle compagnie norvegesi al governo libico”. Le vecchie navi sono diventate parte di una “flotta oscura” di petroliere che battono bandiere di paradisi fiscali come Panamá, Liberia o Gabon e lavorano solo con petrolio colpito da sanzioni. Secondo Bockmann, le dimensioni di questa flotta sono raddoppiate nell’ultimo anno e mezzo, arrivando a cinquecento navi.

Paesi lavanderia

Chiunque faccia il pieno di benzina in un paese del G7 non potrà mai dire di aver boicottato il greggio russo. Il Regno Unito, che in precedenza importava il 18 per cento del diesel dalla Russia, ha vietato le importazioni di combustibili russi alla fine del 2022. Ad aprile, però, il Centre for research on energy and clean air, un centro studi finlandese, ha rilevato un enorme aumento di petrolio russo esportato verso paesi “lavanderia”, tra cui l’India, la Cina e la Turchia, che lo raffinano e lo riesportano in occidente. Nel primo anno di guerra il Regno Unito ha importato 5,3 milioni di tonnellate di petrolio da questi paesi.

Secondo Brooks, così si è persa un’occasione per agire in modo decisivo. “L’occidente ha il potere di mandare in crisi le finanze russe”, dice, perché il valore del rublo dipende in modo determinate dagli scambi commerciali. Se l’occidente l’avesse fatto, avrebbe subìto delle conseguenze (un’inflazione più alta, forse una recessione), ma probabilmente così la guerra sarebbe stata più breve.

Scegliendo mezze misure, dando priorità ai consumatori britannici o statunitensi rispetto ai civili ucraini, abbiamo dato al petrolio russo il tempo di schivare le sanzioni. “E stiamo dicendo ad altri paesi che non ci piace subire effetti dolorosi sulla nostra pelle”, aggiunge Brooks, “Gli stiamo mostrando come aggirare i nostri divieti”. Secondo l’economista, due misure potrebbero essere d’aiuto: ridurre a 50 dollari il tetto al prezzo del petrolio e includere le petroliere nell’elenco di tutto ciò che è vietato esportare. Altrimenti, afferma Brooks, non ci resta che guardare le aziende occidentali trarre profitto dalla distruzione delle città ucraine e chiederci: “Cosa fa l’Unione europea?”. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1527 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati