A partire dal 2013 la Siria ha subìto una brutale trasformazione islamista che è durata anni. In questo periodo i jihadisti salafiti hanno commesso crimini terribili e sembrava che la causa della rivoluzione siriana fosse definitivamente persa. Oggi, invece, gli islamisti sembrano i protagonisti di un’era successiva alla barbarie. Hanno cominciato a sventolare la bandiera della rivoluzione che prima rifiutavano, quando la loro immaginazione politica era perseguitata dallo spettro della ummah, la grande comunità islamica. Dopo anni di estremismo, hanno moderato il loro linguaggio e i loro metodi.

Parlo di “barbarie islamista” perché è stata una forma di follia estremista: una sorta di intossicazione religiosa che annebbiava la mente di tutti i gruppi islamisti, in misura diversa. Non solo era in contrasto con le idee di cittadinanza e di uguaglianza dei diritti, ma anche con la tradizione sunnita, che aveva un orientamento inclusivo. L’apparente moderazione di oggi sembra essere un ritorno a quella tradizione, che accettava la pluralità religiosa e culturale ereditata dal passato. Ma questo non significa accettare il pluralismo politico, legato a interessi, idee e preferenze del momento.

La transizione segna il ritorno a una pluralità comunitaria ispirata al passato

L’apice della barbarie è stato raggiunto con il gruppo Stato islamico (Is), che dal 2014 ha schiacciato tutti gli abitanti nelle aree sotto il suo controllo in Siria e in Iraq. Il gruppo combinava un regime di sorveglianza totalitario, che riguardava anche la vita privata, con un’occupazione coloniale simile a quella israeliana. Le case dei siriani fuggiti erano assegnate ai jihadisti, che venivano da ogni parte del mondo e non erano legati ai costumi, alle reti sociali né alla lingua delle popolazioni locali, descritte come “masse musulmane”. Inoltre, l’Is era un’organizzazione terroristica che non faceva distinzione tra civili e combattenti e commetteva orribili uccisioni pubbliche per mantenere il potere, proprio come il regime di Bashar al Assad si affidava ai servizi segreti.

Il miglior antidoto

Anche se l’Is non era un prodotto della rivoluzione siriana e non era un’incarnazione religiosa dei processi di radicalizzazione, militarizzazione, islamizzazione e settarizzazione avvenuti in Siria dal 2012, è stato comunque avvantaggiato da queste dinamiche, reclutando i suoi militanti tra i siriani e controllando vaste aree del paese per anni. Non ne facevano parte solo siriani, ma la Siria ha fornito un ambiente favorevole alla diffusione di questa entità jihadista globalizzata, che non riconosce il modello politico e religioso delle comunità esistenti, le diverse esperienze storiche e le specifiche memorie. È per questo che l’Is tende alla barbarie. Oggi è ridotto a un piccolo mostro dagli artigli affilati e la trasformazione politico-religiosa avvenuta in Siria potrebbe essere il miglior antidoto contro quello che ne resta.

Neanche il Fronte al nusra (ex ramo siriano di Al Qaeda da cui proviene il gruppo Hayat tahrir al Sham, oggi al potere in Siria) aveva stretti legami con le dinamiche del conflitto siriano. I suoi primi combattenti sono arrivati in Siria dall’Iraq, perché pensavano di potersi espandere approfittando della guerra di Assad contro la rivoluzione siriana. Il Fronte al nusra era una forza estremista slegata da qualsiasi società, storia, memoria o sensibilità locale. Aveva un modello salafita-jihadista astratto, applicabile ovunque e imposto con la forza (anche l’Is ha fatto parte del gruppo fino all’aprile del 2013). Reclutava combattenti da molti paesi (sembra che alcuni di loro abbiano bruciato un albero di Natale a Suqaylabiyah, una città a maggioranza cristiana nel centro della Siria, il 24 dicembre 2024). Molti in seguito si sono uniti al gruppo Stato islamico.

Tra le azioni più feroci compiute dal Fronte al nusra ci sono il massacro nella città di Adra nel dicembre 2013 e gli attacchi contro i villaggi alawiti nella campagna di Latakia nello stesso anno, dove molti civili sono stati uccisi e rapiti. I suoi affiliati hanno anche ucciso circa venti drusi nel villaggio di Qalb Lawza a Idlib nel giugno del 2015. Tuttavia, la “sirianizzazione” del Fronte al nusra è aumentata dopo la scissione dall’Is e in seguito il gruppo ha mostrato una maggiore moderazione, al punto da limitare l’attività di altre formazioni jihadiste estremiste nelle aree sotto il suo controllo. Ha interrotto i legami con Al Qaeda cambiando nome in Hayat tahrir al Sham e ha cominciato a sventolare la bandiera della rivoluzione.

Il gruppo Jaysh al islam (Esercito dell’islam, un altro gruppo jihadista) si è invece radicato a Duma, una città nel sud del paese vicino a Damasco, dove si è macchiato di diversi crimini: detenzioni arbitrarie, torture, sparizioni forzate – come quelle di Samira Khalil, Razan Zaitouneh, Wael Hamada e Nazem Hamadi (tutti attivisti del Centro per la documentazione delle violazioni in Siria; non si sa più niente di loro dal dicembre del 2013) – ed esecuzioni pubbliche, nello stile dell’Is. Tutto questo avveniva mentre la popolazione era assediata dal regime e sottoposta a bombardamenti quotidiani per schiacciare la rivoluzione.

Dopo l’espulsione da Duma verso le regioni del nord della Siria, quello che restava di Jaysh al islam è entrato nell’Esercito nazionale siriano, composto da formazioni armate corrotte e legate alla Turchia, che le ha usate soprattutto per combattere i curdi. Il gruppo ora mostra una certa apparente moderazione, adottando la bandiera rivoluzionaria siriana, ma resta prigioniero dei suoi crimini passati e difficilmente in futuro sarà indipendente.

Cosa aspettarci

È naturale dubitare di quanto sia sincera e profonda la moderazione di questi gruppi vicini al modello salafita-jihadista, e dobbiamo farlo. Ma è anche ragionevole affermare che abbiamo superato il vertice della barbarie. Qual era la radice di quelle brutalità? Credo che siano state il prodotto di un incrocio tra la logica dello stato sovrano moderno, che esercita una controllo totale, e una forma specifica di pensiero politico islamico, il salafismo, soprattutto nella sua rigida versione wahabita.

Il movimento legato al politico e filosofo egiziano Sayyid Qutb, erede delle idee del teologo pachistano Abu al Ala al Maududi, che invocava l’origine divina della sovranità, è stato il ponte tra il wahabismo e la logica sovranista, e l’Afghanistan è stato il terreno d’incontro. È chiaro che è stata una trasformazione distruttiva, fatale e incapace di produrre una società, una politica, una cultura, un’arte o la minima forma di vita spirituale.

Le nuove forze dominanti in Siria probabilmente saranno varie, da quelle che condividono sensibilità e linguaggio con i salafiti-jihadisti ai conservatori fino ai nazionalisti convinti. Una delle principali fonti di tensione in questa situazione potrebbe essere lo spettro islamista dominante, diviso tra pragmatici e fanatici religiosi.

Come sarà allora il periodo successivo alla barbarie? Sembra che dovremo aspettarci un ritorno alla tradizione islamica dei sultani: un misto di centralità dell’islam sunnita e di “rassicurazioni” alle altre comunità religiose e confessionali, con l’idea che “hanno gli stessi diritti e doveri”. Queste rassicurazioni potrebbero riguardare gli alawiti e altri gruppi. Ma sarebbe ancora una volta una pluralità religiosa e confessionale, senza un vero pluralismo politico.

Quello che emerge dalla formazione “post-barbarica” delle forze islamiste oggi dominanti in Siria è una forma di governo moderata, che rimane tuttavia radicata nell’idea di integrazione islamica tradizionale e sultanistica.

Quest’epoca sarà dunque all’insegna di un’umanizzazione o di una politica islamica umanista? Probabilmente no, perché come abbiamo detto la transizione sembra segnare un ritorno a una pluralità comunitaria ispirata al passato invece che a un pluralismo politico orientato verso il futuro. Questo giustifica i dubbi sulla profondità e sulla durata di questa trasformazione. Si tratta di un’evoluzione che manca di un’anima in grado di dargli vita. Uno spirito simile può emergere solo attraverso un movimento intellettuale attivo, un pensiero e una coscienza coraggiosi, in sintonia con i valori di libertà e uguaglianza del mondo moderno. Sarebbe necessaria una ristrutturazione dei valori islamici fondamentali per soddisfare questi ideali.

In assenza di un movimento simile, l’attuale pragmatismo degli islamisti rimane superficiale e debole. L’islamismo che professano è una forma storica di islam che ha dimostrato un grande coraggio fisico e militare, ma poco coraggio intellettuale e spirituale, rivelandosi incapace di reinventarsi.

Chi sembra essere escluso da questo quadro politico-ideologico sono i sunniti atipici, di sinistra, liberali, laici o non credenti. Non esiste una logica comunitaria per integrare questi gruppi, ma la loro natura civile o non comunitaria li rende proprio un punto di apertura e un potenziale trampolino verso il pluralismo politico.

Il futuro del sistema politico siriano dopo l’era di Assad dipenderà non solo dai desideri dei nuovi leader, ma anche dalla capacità di ampi settori della società siriana di organizzare le forze, far sentire la propria voce e affermarsi come protagonisti efficaci nella nuova arena politica. ◆ abi

Yassin al Haj Saleh è uno scrittore e dissidente siriano. È stato prigioniero politico dal 1980 al 1996. Ha scritto diversi libri sulla Siria, sulla prigionia e sull’islam contemporaneo. È uno dei fondatori del sito di informazione e approfondimento Al Jumhuriya. Ha vissuto a Berlino dal 2013 e alla fine di dicembre è potuto tornare in Siria per la prima volta dopo undici anni di esilio.

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Questo articolo è uscito sul numero 1597 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati