05 giugno 2017 17:43

Come ormai tutti sanno, nessuno legge i programmi elettorali dei partiti. La maggior parte degli elettori ha già un’opinione e gli indecisi scelgono in base alla leadership e non alle promesse elettorali. Tuttavia i programmi elettorali contano per due ragioni. La prima è che hanno rilevanza di governo, specialmente quando, come al momento, non c’è una maggioranza nella camera dei lord (per convenzione, i lord non si oppongono agli impegni presi in campagna elettorale). L’altra ragione è che i programmi sono una guida alla filosofia del partito.

La prima impressione che si ricava dai programmi per le elezioni dell’8 giugno dei laburisti, dei liberaldemocratici e dei conservatori è che siano abbastanza trasparenti. I laburisti propongono un incremento della spesa pubblica, finanziato principalmente da significativi aumenti delle tasse per le aziende e i ricchi (nel caso del labour coloro che guadagnano più di 80mila sterline all’anno, cioè più di 93mila euro). I tory sono più sobri, però hanno abbandonato il loro impegno a non alzare le imposte sui redditi e i contributi per la previdenza sociale; inoltre, sono i soli a non garantire il “triple lock”(l’adeguamento all’inflazione) per le pensioni statali. I liberaldemocratici sono nel mezzo: spendere più dei tory e meno dei laburisti.

Le differenze riguardano anche l’istruzione, la sanità e l’assistenza sociale (per la quale i tory propongono di far pagare di più i ricchi anziani), così come la Brexit. Su questo tema i laburisti danno priorità all’economia e al lavoro. I tory insistono sul controllo dell’immigrazione e su come evitare le sentenze della corte di giustizia europea. Il perno centrale del programma dei liberaldemocratici è indire un secondo referendum sulla Brexit, con l’alternativa chiara di restare membri dell’Unione europea. Per queste elezioni, insomma, gli elettori difficilmente possono lamentarsi di non avere reali differenze tra cui scegliere.

I tre partiti sembrano condividere l’idea che il mercato ha bisogno di più limitazioni, non di più libertà

Tuttavia, sono i punti in comune tra i programmi a sorprendere maggiormente.
Il primo è la scelta di non menzionare il deficit di bilancio. Torsten Bell della Resolution foundation, sottolinea che nel 2010 e nel 2015 era stato il tema centrale delle campagne elettorali; poiché il deficit è sceso è scesa anche la sua rilevanza politica. Tuttavia dato il rischio associato alla Brexit e le paure di una possibile recessione o di un altro crollo del mercato, dovrebbe esserci una preoccupazione più diffusa per il deficit, che rimane ampio, e per il debito pubblico, che è al 90 per cento del prodotto interno lordo.

Altrettanto comune è lo scarso interesse per il taglio delle tasse, per la deregolamentazione e per l’alleggerimento degli oneri sulle attività commerciali. Tutti e tre i partiti sembrano, invece, voler incrementare il ruolo dello stato nell’economia. Nessuno dei tre leader pare un liberista economico. Sembrano condividere l’idea che il mercato necessiti di più limitazioni, non di più libertà. Come fa notare un osservatore, i programmi elettorali mostrano che tutti sono, in una certa misura, tornati a un modo di pensare prethatcheriano riguardo all’economia e al libero mercato.

Questo elemento è particolarmente evidente nel caso di Jeremy Corbyn, leader dei laburisti. Il suo programma non propone solo un aumento della spesa pubblica ma propone anche un esteso programma di rinazionalizzazioni, incluse le poste, le ferrovie e le aziende idriche. Ma arrivano pochi segnali su come pagare tutto questo: le entrate che potrebbero essere generate da maggiori entrate e imposte sulle società potrebbero non bastare. I laburisti propongono anche nuovi diritti per i lavoratori e sindacati e misure per limitare i salari più elevati, incluso un “contributo sui salari più alti” per le compagnie che hanno uno staff altamente retribuito.

Questo è il programma più di sinistra che i laburisti abbiano proposto dal “ longest suicide note” del 1983, anche se molti dettagli sono meno folli di allora: nessun controllo sulle importazioni e sui capitali, per esempio. Stranamente per un leader molto attento agli affari esteri, Corbyn è sorprendentemente moderato in questo campo. I suoi impegni elettorali a mantenere il deterrente nucleare, appoggiare la Nato e aderire all’obiettivo di spendere il 2 per cento del pil per la difesa, contraddicono quello che Corbyn stesso ha affermato in passato.

Tuttavia il programma di Theresa May è quello più interessante, e non solo perché è data per vincente l’8 giugno. Il suo programma rivela una leader più interventista di ogni altro suo predecessore. Per affrontare le critiche sui prezzi dell’energia, concorda con i laburisti nel proporre limiti tariffari. Promette nuove case popolari, anche se è evasiva su come finanziarli. Propone anche un salario minimo più elevato, anche se inferiore a quello proposto dai laburisti.

Strategie interventiste
May promette non solo di mantenere tutti i diritti previsti dall’Ue per i lavoratori, dopo la Brexit, ma di aggiungerne altri. Il suo programma include diversi affondi per il mondo degli affari, incluso l’obbligo di maggiore trasparenza per i salari dei dirigenti e più forme di rappresentanza per i lavoratori. Come evidenzia Paul Johnson dell’istituto Fiscal studies, il più grande esempio della sua ingerenza nel mercato riguarda l’immigrazione. May ribadisce l’obiettivo di ridurre la cifra massima sotto i centomila migranti, quasi tre volte meno di quello attuale, e chiarisce che tutti i costi di controllo per controllare l’immigrazione dall’Ue debbano ricadere sui datori di lavoro.

In parte, quello che May sta facendo è meramente tattico. Sulla Brexit e sull’immigrazione vuole conquistare gli elettori che in precedenza sostenevano il Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip). Per le politiche sociali e del lavoro, spera nei voti dei laburisti moderati. Tuttavia il suo programma rivela anche un nuovo paternalismo dei tory che non mira più a ridurre l’intervento dello stato ma persegue invece una strategia interventista.

La cosa più strana di questo non è la rottura con il passato ma la coincidenza temporale con la Brexit. May sta perseguendo una Brexit “dura” che implica di lasciare il mercato unico dell’Ue. Se si vogliono attrarre nuovi investimenti in questo mondo incerto che sta nascendo, una mossa logica sarebbe quella di ridurre gli interventi statali, diminuire la burocrazia e abbassare le tasse. Scegliere in questo momento di avvicinarsi al modello europeo di mercato regolato è rischioso. Non meraviglia che le aziende siano tiepide riguardo al programma di May e rispetto alle proprie prospettive in un Regno Unito post Brexit.

(Traduzione di Julian Canettieri)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale britannico The Economist.

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