05 agosto 2019 13:01

Di solito il paesaggio della Siberia orientale non somiglia all’inferno. In inverno è coperto da un lenzuolo di neve. D’estate le sue foreste sono rigogliose e i suoi terreni acquitrinosi impregnati d’acqua. Quest’anno, tuttavia, la regione sta andando a fuoco, come accade ad ampie zone del circolo polare artico.

Non è mai stato registrato niente di questa portata da quando, nel 2003, sono cominciati i rilevamenti satellitari ad alta risoluzione nell’estremo nord russo. Uno studio del 2013 suggerisce che anche la quantità d’incendi nelle regioni boreali sia anomala rispetto agli ultimi diecimila anni.

I ricercatori definiscono “senza precedenti” gli eventi di quest’anno. I dati di quest’estate sono “folli”, secondo Guillermo Rein, studioso dell’Imperial college di Londra.

Aumento disuguale
Gli incendi sono cominciati a giugno, scatenati da un’estate precoce estremamente calda e secca. È stato il giugno più caldo mai registrato su scala mondiale, secondo l’Amministrazione oceanografica e atmosferica degli Stati Uniti.

L’aumento delle temperature a causa del riscaldamento globale non è equamente ripartito, e l’Artide si sta riscaldando a una velocità doppia rispetto al resto del pianeta. Nelle regioni andate a fuoco, le temperature sono state anche tra gli 8 e i 10 gradi più calde rispetto alle medie registrate tra 1981 e 2010. Questo ha seccato il paesaggio, producendo stoppe che hanno portato agli incendi naturali delle foreste, probabilmente scatenati dai fulmini.

È quel che accade sottoterra a spaventare di più ambientalisti e scienziati del clima

Attualmente sono centinaia gli incendi al suolo registrati dai satelliti, e che coprono centinaia di migliaia di ettari nell’Artide e nella regione subartica, dalla Siberia orientale all’Alaska e la Groenlandia.

Il servizio europeo d’osservazione dell’atmosfera Copernico ritiene che gli incendi all’interno del circolo polare artico abbiano prodotto più di cento milioni di tonnellate di biossido di carbonio, equivalente all’incirca a quello prodotto dal Belgio in un anno. Sono numeri impressionanti. Ma la vegetazione bruciata può ricrescere in un decennio, e nel farlo riassorbire buona parte del biossido di carbonio rilasciato.

Un circolo vizioso
È quel che accade sottoterra a spaventare di più ambientalisti e scienziati del clima. Molti degli incendi siberiani e dell’Alaska stanno bruciando terreni di torba ricchi di carbone, che normalmente dovrebbero essere impregnati d’acqua. Gli incendi di torba producono molto più biossido di carbonio e metano perché causano la combustione del carbone che è rimasto imprigionato nel terreno per centinaia o migliaia di anni. Quando il terreno brucia, scompaiono importanti assorbitori di carbonio, che non può essere sostituito in un lasso di tempo utile.

Questo tuttavia mette in moto cicli di retroazione che non vengono presi in considerazione nelle proiezioni climatiche del Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici. I ricercatori del clima citano la possibilità che il riscaldamento globale causi il disgelo del permafrost artico, rilasciando così grandi quantità di gas serra immagazzinate. Ma se gli incendi nella regioni diventeranno più comuni, la cosa potrebbe avere anche conseguenze più gravi. Le emissioni provenienti dagli incendi di quest’anno rendono più probabile che si ripresentino condizioni propizie a nuovi incendi di torba nelle prossime estati, il che produrrà ulteriori emissioni, creando un circolo vizioso.

Vigili del fuoco durante un incendio in una foresta nella regione di Krasnojarsk, in Siberia, il 1 agosto 2019. (Russian federation service aviation forest protection/Epa/Ansa)

Con queste condizioni, “sono convinto che in realtà saranno gli incendi incontrollati a rilasciare molto più velocemente quantità di carbonio sempre più ampie”, e non lo scioglimento del permafrost, sostiene Rein. Gli incendi producono inoltre una sottile fuliggine nera nota come carbonio nero che, se trasportata nell’oceano Artico da venti favorevoli, ne anneriranno la superficie, facilitando così l’assorbimento di luce solare e ghiaccio fuso da parte di quest’ultima. Questo diminuisce la riflettività di tutta la regione (l’acqua blu assorbe più energia solare rispetto al ghiaccio bianco) e rende ancora più preoccupante la situazione dell’Artide.

Ci vorranno mesi per capire il reale impatto degli incendi nell’Artide. I dati satellitari usati per misurare le emissioni dei fuochi non possono misurare gli incendi che ardono sottoterra, e che potrebbero raddoppiare o triplicare la portata totale degli incendi, secondo Rein.

Aumentare gli sforzi
Lo smog provocato dagli incendi sta ricoprendo di monossido di carbonio e di altre sostanze inquinanti buona parte della Siberia, dal Kazakistan al mare di Bering. Il 31 luglio, dopo che una petizione volta a dichiarare lo stato di emergenza ha raccolto ottocentomila firme, il presidente Vladimir Putin ha ordinato all’esercito di contribuire ai tentativi di domare le fiamme. Probabilmente è troppo tardi. Combattere incendi che hanno raggiunto proporzioni così colossali in regioni remote e dotate di poche strade è difficile, o addirittura impossibile.

Il compito è ancora più difficile per i grandi incendi nelle foreste di torba, che nell’Asia sudorientale sono causati da cambiamenti locali come il drenaggio delle aree umide e la deforestazione usate per liberare terreni da destinare all’agricoltura.

“Quel che spaventa, negli incendi dell’Artide, è che sono provocati dalla crisi climatica, e in questo senso c’è poco che si possa fare per evitarli”, dice Thomas Smith, che studia gli incendi boschivi alla London school of economics. “Non si può alzare la falda freatica per un’area delle dimensioni dell’Alaska del nord o della Siberia”. Sono pochi gli incendi spontanei di torba di queste dimensioni a essere stati effettivamente domati, e ciò è accaduto solo riversando miliardi di litri d’acqua sul terreno.

L’unico modo di ostacolare questi incendi è ridurre il ritmo del riscaldamento globale, aumentando gli sforzi per tagliare le emissioni di gas serra. Non trattenete il fiato.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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