24 maggio 2018 10:15

La testa sembra pesargli una tonnellata, piena com’è di nuove lingue: l’italiano e la lingua italiana dei segni (Lis). Gli occhi spalancati, Hailù sposta lo sguardo dalle mani di André a quelle di Greta, due ragazzini sordi come lui. André scrive qualcosa, poi i due ricominciano a gesticolare, le mani tracciano i movimenti codificati dalla lingua dei segni. Il dodicenne eritreo guarda rapito la parola che resta sospesa nell’aria, la cattura e la ripete.

“Aveva già un linguaggio molto gestuale”, spiega Roberta Gherardi, insegnante nei laboratori linguistici per bambini sordi all’istituto comprensivo di Cossato, in provincia di Biella. “Con sua madre e i suoi fratelli si capiscono perché hanno un loro modo di comunicare”. È l’ora del laboratorio “dialoghi”, l’insegnante ha detto ai tre bambini d’inventarsi una conversazione, che si trasforma in una lezione di Lis dedicata ad Hailù, che è diventato sordo a causa di un’otite non curata e oltre all’udito ha perso progressivamente l’uso della parola..

Dai primi di marzo Hailù è il ventiduesimo alunno della prima C. Nella scuola ci sono anche i quattro fratelli, udenti, distribuiti tra materna, elementari e medie. Tutti impareranno la Lis come previsto dall’istituto. “Le ore di Lis sono due alla settimana, è considerata al pari di una lingua straniera, solo se la parliamo tutti possiamo comunicare, racconta Gherardi, che da quindici anni partecipa al progetto prima come interprete Lis e negli ultimi due come insegnante. I cinque fratelli porteranno la nuova lingua a casa, insegnandola alla madre.

Cambiare il paradigma dell’immigrazione
La famiglia di Hailù fa parte dei 113 profughi eritrei, sudsudanesi e somali, profughi in Etiopia, arrivati in Italia il 27 febbraio scorso grazie al corridoio umanitario organizzato dalla Conferenza episcopale italiana attraverso la Caritas e la fondazione Migrantes, in collaborazione con la Comunità di sant’Egidio e il sostegno sul campo dell’ong Gandhi di Alganesh Fessaha. Il protocollo firmato con il governo italiano prevede il trasferimento sicuro di 500 profughi, che saranno distribuiti da Biella ad Agrigento, da Arezzo a Tortona. L’arrivo dall’Etiopia fa seguito ai primi corridoi umanitari organizzati per i profughi siriani presenti in Libano, avviati nel gennaio 2015 dalla Comunità di sant’Egidio, la Tavola valdese e la Federazione delle chiese evangeliche.

La madre di Hailù firma i documenti per il viaggio in Italia, 23 febbraio 2018. (Max Hirzel)

“Il progetto è nato per reagire alla tragedia che da tanti anni colpisce il Mediterraneo”, spiega Giancarlo Penza, responsabile del progetto in Etiopia per la Comunità di sant’Egidio. Una via sicura per raggiungere l’Europa è prevista dal codice comunitario per i visti che regola lo spazio Schengen: nell’articolo 25 stabilisce che uno stato membro può rilasciare visti umanitari “a territorialità e durata limitate”. Questa nuova esperienza è però andata oltre, come logica e come forma. “Per noi ha un alto valore simbolico, non solo umanitario”, commenta Oliviero Forti, responsabile dell’ufficio migrazione della Caritas italiana. “Questo progetto incarna la volontà di aprire la strada a una diversa visione dell’immigrazione e dell’accoglienza, e di dimostrare che è possibile”.

Profughi in Etiopia
Nel dicembre del 2016, al momento della firma, l’Etiopia era il paese africano con il più alto numero di profughi: ancora oggi, secondo il rapporto 2018 dell’Arra (l’agenzia etiopica per i rifugiati e i rimpatriati), ne ospita più di 910mila, superata solo dall’Uganda che ne conta più di 1,4 milioni.

Nei campi del nord, tra le montagne color sabbia dello Shire, vivono più di 170mila eritrei fuggiti dal regime militare di Isaias Afwerki, presidente dal 1993. Più di 370mila sudsudanesi, scappati a causa delle guerra civile, vivono nei campi nati nella zona di Gambella. A Jewi sessantamila profughi abitano capanne fatte di rami, terra e lembi delle tende bianche e blu dell’Unhcr. Centinaia di migliaia di somali si trovano nei campi nel sudest del paese, spinti all’esilio da una guerra civile infinita e dalla minaccia degli shebab, i miliziani islamisti che controllano intere zone della Somalia.

Nel febbraio del 2018 siamo andati nel campo di May-Aini, nella regione del Tigray, nel nord dell’Etiopia: in una baracca con il tetto di lamiera abbiamo trovato una quindicina di persone, uomini e donne, arrivati qualche giorno prima.

Tra i bagagli sparsi alla rinfusa sul pavimento di terra, una colonna di fumo si alzava da una piccola pentola, rendendo soffocante l’aria già caldissima. I racconti dei nuovi arrivati facevano eco a quelli degli eritrei che vivono da anni nel campo: si parte per lasciare un paese che è un carcere a cielo aperto, dove il servizio militare è obbligatorio e di durata indeterminata, una sorta di schiavitù senza fine. C’è chi fugge dopo oltre dieci anni o più di servizio militare, chi ha venduto tutto per fare arrivare un parente in Europa o in America e vorrebbe raggiungerlo; ci sono poi gli anziani, ricattati dal governo che pretende soldi e terreni come indennizzo per i figli che sono partiti.

A May-Aini viveva anche la famiglia di Hailù. Per tre mesi hanno attraversato l’Eritrea a piedi, fino a Dabaguna, una delle città più settentrionali dell’Etiopia. Passando il confine, Tesfai, 31 anni, madre di Hailù, si è lasciata alle spalle una vita resa impossibile dalla povertà e dal regime di Isaias Afwerki. Raccontava la sua storia senza batter ciglio, anzi, sorridendo spesso. Era serena, ormai consapevole di parlare al passato.

Gli operatori della Caritas e della Comunità di sant’Egidio hanno visitato diversi campi profughi in Etiopia, lungo i confini con l’Eritrea, il Sud Sudan e la Somalia per trovare i profughi ai quali proporre di arrivare in Italia con i corridoi umanitari. Hanno incontrato decine di urban refugees, soprattutto sudsudanesi e somali. La selezione si basa sulle segnalazioni delle persone più vulnerabili da parte delle organizzazioni che operano nei campi, come l’Unhcr e, nel caso degli eritrei, dell’ong Gandhi e della sua presidente, Alganesh Fessah. “La priorità va alle donne, alcune abbandonate dai mariti, ai bambini, ma anche agli uomini, a volte sopravvissuti alle torture nel deserto del Sinai, e ai malati”, racconta Fessah, vero pilastro per la diaspora eritrea.

Circa un mese prima della partenza per l’Italia, la famiglia è stata trasferita insieme a una sessantina di altri profughi ad Addis Abeba, per le ultime pratiche mediche e amministrative. Li abbiamo incontrati di nuovo in una casa di quattro piani, con i muri beige, tra le facciate colorate di un quartiere residenziale della periferia. Dietro il portone di ferro nero, l’odore del caffè speziato aleggiava nell’aria secca dell’inverno etiope. Il cortile ombreggiato funge da cucina, spazio per i giochi dei bambini e luogo di ritrovo per tutti.

Hailù è accompagnato dalla famiglia al suo primo giorno di scuola all’istituto comprensivo di Cossato, in provincia di Biella, 9 marzo 2018. (Max Hirzel, Haytham)

Seduta su uno sgabello di legno, Tesfai tostava dei chicchi di caffè in un pentolino che faceva ondeggiare su un piccolo braciere, mentre con l’altra mano teneva accesi i tizzoni con l’aiuto di un ventaglio. Tesfai ha lasciato il suo villaggio nel nord dell’Eritrea nel 2010 con i quattro figli, il quinto è nato a Mai-Ayini.Abbiamo trascorso quasi otto anni nel campo”, ha raccontato con un sorriso dolce. Accanto a lei, felpa con cappuccio e jeans, Seium si sforzava di tradurre dal tigrino: è tra i pochi profughi in partenza a parlare inglese, imparato studiando sociologia all’università di Addis Abeba.

A tre giorni dalla partenza per l’Italia, i bagagli erano quasi pronti. Non senza difficoltà Tesfai ha incastrato in una grossa valigia l’ingombrante scatola di legno che conteneva il necessario per il rituale del caffè tradizionale, diversi sacchetti di farina di teff per l’injera e del berberé, immancabili nella cucina eritrea. Tesfai era felice, anche se nel sorriso compariva una nota di nostalgia al pensiero dei suoi vicini e amici del campo: “È stato molto difficile lasciarli”. Dalla finestra osservava Hailù che gesticolava in mezzo al gruppo di bambini della casa: una lingua a gesti che ormai tutti capivano, ma nessuno come sua madre.

Nella stanza principale al primo piano della casa di Addis Abeba l’eccitazione aumentava mentre Daniele Albanese, biellese e coordinatore dei corridoi umanitari della Caritas, seduto a gambe incrociate su uno dei sottili materassi poggiati a terra, annunciava a ogni famiglia la destinazione finale: Terni, Foligno, Mantova, nomi che nessuno aveva mai sentito prima. Mostrava loro dei brevi video realizzati da chi li avrebbe accolti. “Questa sarà la vostra casa”, spiegava la voce di un operatore mentre davanti agli occhi stupiti dei profughi sfilavano le immagini. Appena usciti dalla stanza, si scambiavano i nomi di città ripetendole come un mantra, ridendo.

Daniele Albanese li ha avvertiti: “Sarà dura, in Italia non ci sono redditi minimi garantiti come in altri paesi, né per gli italiani né per gli stranieri, dovrete lavorare, è fondamentale”, spiega senza giri di parole, ricordando che il progetto dura dodici mesi, dopodiché dovranno cavarsela da soli. “Chiaramente valuteremo caso per caso. Ci sono persone più vulnerabili che faticheranno un po’ di più, le Caritas se ne faranno carico, consapevoli che questo percorso può durare anche di più”, ci confida.

A poche ore dal decollo per Roma, lo stesso messaggio viene ripetuto nella grande sala dell’hotel Ghion dove sono riuniti tutti, eritrei, sudsudanesi e somali. “L’obiettivo che ci poniamo è la loro autonomia e libertà, per questo è necessario che ne siano consapevoli e abbiano voglia di cercare un lavoro, imparare l’italiano, evitare l’assistenzialismo”, spiega ancora Albanese.

Una bambina di otto anni sfoggia le sue più belle perle di plastica, le donne scoppiano a ridere alla notizia della neve che li aspetta. Hailù e i suoi fratelli indossano i piumini di qualche taglia più grande che hanno ricevuto in regalo. Abel, il secondogenito, ha le mani coperte da guanti neri che lasciano apparire la punta delle dita. “Servono per giocare a calcio”, sorride; le mani di Hailù invece scompaiono del tutto nelle maniche troppo lunghe. Fa una delle sue smorfie e ride, la cosa lo diverte. Finalmente si parte.

Un mondo nelle mani
Qualche settimana più tardi Hailù è seduto a un tavolo, la luce del tardo pomeriggio inonda la stanza del teatro municipale di Cossato, di fianco alla scuola. Agli altri tavoli bambini e ragazzi di diverse età gesticolano, seguiti dalle volontarie di Vedo voci, l’associazione di genitori di bambini sordi che organizza le due ore di doposcuola del martedì. Di fronte a lui c’è Melba, la ragazza incaricata di seguire Hailù nello studio della Lis per due ore ogni pomeriggio, oltre al doposcuola. Anche lei è sorda. Le mani si muovono veloci, i tratti dei due volti mimano il susseguirsi di pensieri e messaggi, le espressioni sono parte integrante di questa lingua e in questo Hailù è già un campione: è curioso e impara velocemente.

Hailù con altri due compagni di scuola durante una lezione di lingua dei segni, 15 marzo 2018. (Max Hirzel, Haytham)

“Arrivando in questa scuola, ha scoperto che ci sono altre persone come lui e che non c’è niente di strano”, continua Roberta Gherardi. A farglielo capire contribuiscono i compagni di classe, curiosi di conoscere Hailù e i suoi fratelli. Una settimana prima dell’arrivo, allievi e insegnanti hanno incontrato gli operatori della Caritas di Biella che seguono la famiglia nel percorso d’integrazione. C’era anche Laura Arietti, insegnante di sostegno all’istituto di Cossato: Sono emerse tante domande sui motivi per cui la famiglia è fuggita dall’Eritrea, gli alunni volevano sapere che lingua parlassero, se usassero i segni in tigrino, a cosa fosse dovuta la sordità di Hailù”. “I ragazzi l’hanno accolto a braccia aperte”, aggiungono Gherardi e Gabriella Badà, dirigente della scuola, che ha messo a disposizione tutte le risorse dell’istituto per portare a buon fine il progetto.

Sono stati necessari mesi di lavoro. “Abbiamo cominciato a cercare disponibilità in tutto il territorio dalla fine di novembre del 2017”, spiega Daniele Albanese. “Nel caso di Hailù c’è stata la disponibilità da parte di questa scuola e dell’associazione Vedo voci: così si crea il contesto ideale per integrare un bambino sordo e la sua famiglia”. Trovare una collocazione giusta per ogni profugo in arrivo: lo definiscono matching, abbinamento, chiave e novità del progetto d’accoglienza. “Prima verifichiamo chi può accogliere e dove, e in un secondo tempo selezioniamo le persone cercando di fare matching”, sintetizza Oliviero Forti.

Per la famiglia di Hailù sono stati organizzati incontri con la scuola, servizi sociali e mediatori culturali per creare una rete di supporto e organizzare attività per i cinque fratelli e per la madre. Il passaggio repentino dalla vita in un campo profughi alla realtà italiana implica un percorso a ostacoli, più o meno complessi.

Una nuova strada
A Cossato, finito il doposcuola, nella piazza davanti al teatro, Hailù e tre amici confabulano, a segni ovviamente, concordano ruoli e chissà cos’altro, a un tratto si rincorrono, ridono, saltano. Melba sorride mentre osserva Hailù. All’inizio temevo di non riuscire a insegnargli a esprimersi, invece ora è qui che gioca con sordi e udenti. È lui che insegna agli altri”.

Per Hailù si è aperto un mondo, una strada appena cominciata, partita da un corridoio.

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