Nove mesi dopo l’inizio della pandemia, ancora affrontiamo il virus con una benda sugli occhi. I dati diffusi ogni giorno nel bollettino delle 18 sono utili per farsi un’idea grossolana dell’andamento del contagio nel medio periodo, ma talvolta sono fuorvianti, per esempio a causa delle differenze regionali nelle regole del tracciamento dei contatti e nella capacità di somministrazione dei tamponi, nei tempi di restituzione dei risultati e nella trasmissione delle informazioni alle autorità sanitarie. I bollettini, inoltre, non contengono informazioni cruciali per la lotta al sars-cov-2: dove e come è avvenuto il contagio? Chi sono i contagiati? Che lavoro fanno, che abitudini hanno, qual è il loro stato di salute?

Per conoscere le risposte abbiamo bisogno dei dati individuali, quelli che in gergo si chiamano “microdati”, resi opportunamente anonimi. In Italia la comunità scientifica li invoca da marzo, per ora senza risultati.

Quando si somministrano i tamponi, e ancora di più nel tracciare i contatti dei pazienti positivi, si ha una grande occasione per raccogliere informazioni. La condivisione di queste informazioni con la comunità scientifica consentirebbe di elaborare strategie mirate per contrastare la diffusione del virus e preservare quanto più possibile l’economia e la vita sociale.

Anzitutto, i dati individuali aiuterebbero a capire dove avviene il contagio. Davvero la scuola è la principale responsabile della seconda ondata? C’è differenza tra scuola primaria, secondaria e superiore? I runner sono pericolosi? Dobbiamo controllare meglio ristoranti, discoteche, palestre, ospedali, manifestazioni di piazza, treni, autobus e aerei? Le sale d’attesa del medico di base o le code al drive-in e al supermercato? Quanti contagi avvengono sul posto di lavoro, e qual è la differenza tra i vari settori?

Il profilo dei contagiati
La verità è che non lo sappiamo con certezza. Né lo sapremo finché non costruiremo un sistema centralizzato di raccolta (e distribuzione) dei dati basato sugli esiti del tracciamento dei contatti. Per farlo, sarebbe stato necessario potenziare drasticamente la nostra capacità di fare i test e di tracciare i casi. Molte regioni, invece, sono rimaste indietro, al punto che all’alba della seconda ondata il sistema di tracciamento è già saltato, di nuovo.

Inoltre, sarebbe importante conoscere meglio il profilo dei contagiati. Oggi disponiamo di informazioni “aggregate” sulla distribuzione di età e comorbidità negli infetti. Ma alla comunità scientifica non è dato accedere alle caratteristiche demografiche, economiche, sociali e sanitarie di ognuno, che sarebbero fondamentali per dedurre quali categorie sono più vulnerabili, in modo più raffinato di quanto possiamo fare ora. I dati probabilmente esistono, ma non sono raccolti in un dataset centralizzato condiviso con la comunità scientifica.

Un eventuale dataset centralizzato, tuttavia, ancora non sarebbe sufficiente, perché “orientato” dalle regole del tracciamento dei contatti e della somministrazione dei test. I microdati dovrebbero essere “rappresentativi”, cioè non influenzati dalle particolari caratteristiche delle persone, o gruppi sociali, presso cui si raccolgono le informazioni. Oggi i tamponi sono somministrati soprattutto ai pazienti che mostrano sintomi o a coloro che sono entrati in contatto con persone infette. Invece, dovremmo raccogliere periodicamente informazioni presso un campione di persone estratte casualmente dalla popolazione, per esempio ogni una o due settimane, come hanno proposto più volte gli ex presidenti dell’Istat Giorgio Alleva e Alberto Zuliani senza trovare ascolto nelle istituzioni.

Eppure, si tratterebbe di interventi relativamente poco costosi e dai benefici potenzialmente enormi. Rilevare l’incidenza del contagio in un campione rappresentativo consentirebbe una stima accurata del numero di infetti nella popolazione, del suo tasso di crescita e della percentuale di asintomatici, del tasso di letalità e dell’efficacia degli interventi di contenimento. Informazioni fondamentali su cui, nove mesi dopo l’inizio della pandemia, ancora non abbiamo certezze.

Stime affidabili sulla probabilità di infezione associata ai diversi luoghi e ai comportamenti individuali consentirebbero azioni di politica sanitaria meno invasive e più efficaci. Conoscere l’andamento nel tempo del rischio associato a ristoranti e palestre nelle diverse aree geografiche aiuterebbe a disegnare una mappa di chiusure brevi e limitate, che risparmi le attività meno pericolose, frenando efficacemente il contagio senza compromettere il reddito di chi ha rispettato rigorosamente i protocolli.

Le regole del tracciamento dei contatti e i criteri di accesso al tampone sono diversi da un paese all’altro

Nel Regno Unito, per esempio, la Covid-19 infection survey curata dall’Office for national statistics (Ons) insieme alle università di Oxford e Manchester analizza i fattori e l’evoluzione nel tempo dell’epidemia in un campione rappresentativo della popolazione britannica. I partecipanti devono sottoporsi al tampone all’inizio dell’indagine e sono invitati ripetere il test una volta a settimana per le prime cinque settimane e poi una volta al mese per dodici mesi. Ogni due settimane, devono rispondere a domande dettagliate sui propri comportamenti sul lavoro e nel tempo libero, sullo stato di salute e su eventuali contatti con casi sospetti di infezione.
Il campione è in continua espansione. All’inizio coinvolgeva circa diecimila famiglie (quindi approssimativamente 21mila individui).

In agosto, l’Ons ha annunciato di prepararsi a somministrare 150mila test, e relative interviste, ogni due settimane. I risultati dell’indagine sono condivisi con la comunità scientifica britannica e sintetizzati in alcune statistiche, pubblicate online, che descrivono l’incidenza delle infezioni, la quota di infetti asintomatici e l’andamento dell’epidemia nel tempo. Chiaramente questo non vuol dire che il Regno Unito abbia affrontato l’emergenza meglio di noi. La raccolta dei dati è solo una delle tante componenti della risposta istituzionale alla pandemia, e il governo di Londra finora non sembra aver approfittato di questo patrimonio informativo.

Differenze europee
I dati di diversi paesi non sono confrontabili per le stesse ragioni che impediscono confronti affidabili tra le regioni italiane. Non solo i sistemi sanitari sono diversamente efficienti nella somministrazione dei tamponi e nell’elaborazione dei risultati. Il problema principale, finora mai affrontato a livello europeo, è che le regole del tracciamento dei contatti e i criteri di accesso al tampone sono diversi da un paese all’altro, e cambiano nelle varie fasi dell’epidemia.

Ogni paese seleziona la popolazione da testare a modo suo e cambia spesso i criteri di selezione, rendendo difficilmente confrontabili le statistiche sull’incidenza e la letalità della malattia, la percentuale di asintomatici e altri indicatori fondamentali dell’emergenza sanitaria. Avviare una campagna europea di testing campionario sul modello dell’Ons britannico, invece, renderebbe i dati nazionali finalmente confrontabili. Potremmo così conoscere su quale punto della curva del contagio si trova ciascun paese, stabilire controlli selettivi ai movimenti delle persone e programmi di screening mirati negli aeroporti, e capire quali misure di contenimento sono più efficaci.

A volte le istituzioni esitano a condividere le informazioni perché la trasparenza aumenta la responsabilità politica dei decisori, che può avere conseguenze sgradite nella misura in cui obbliga a rispondere dei propri errori. In altri casi, le informazioni non sono condivise a causa dell’incapacità di comprendere la rilevanza dell’analisi dei dati.

Qualunque sia la ragione, la mancanza di dati rappresentativi incide sulla qualità delle scelte pubbliche, che sono più esposte all’influenza di suggestioni passeggere e risentono della tendenza a generalizzare la validità di aneddoti personali e singoli episodi. In queste condizioni, l’incertezza si risolve spesso in un processo di apprendimento politico basato su tentativi ed errori che ha costi enormi e rischia di far perdere tempo prezioso, fino a essere costretti a chiudere tutto e confinare tutti, nel dubbio che si stia lasciando aperta qualche attività pericolosa.

Le scelte pubbliche devono basarsi sull’analisi rigorosa dei dati, non sugli aneddoti, le intuizioni e le esperienze personali dei politici o, peggio, sulle emozioni dell’opinione pubblica.

La disponibilità e il libero accesso ai dati migliorano sempre la trasparenza e l’efficacia delle politiche pubbliche, sia perché consentono di basare le decisioni sull’evidenza empirica disponibile, sia perché migliorano il controllo democratico dei cittadini e degli esperti sulle decisioni politiche. Nel corso della pandemia di covid-19, in cui decisioni errate possono costare molte vite, oltre che causare danni economici ingenti, è ancora più urgente basare le scelte politiche sulla raccolta e l’analisi dei dati.

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