10 marzo 2023 13:42

È il 2014 e due uomini sono seduti su un autobus a due piani. Uno, in tuta e cappellino con la visiera, fuma una sigaretta elettronica e l’altro, con una camicia grigia abbottonata fino al collo, canta mentre tiene un sacchetto della spesa giallo sul sedile. Dai finestrini filtra una luce grigiastra e in sottofondo si vede un campetto da calcio. Può esserci qualcosa che rappresenta la provincia inglese meglio del video del 2014 di Tied up in Nottz degli Sleaford Mods? Difficile. Del resto il duo di Nottingham fin dagli esordi è la voce credibile, ironica e sboccata della working class britannica, con le sue canzoni a base di elettronica e immediatezza punk che denuncia ferocemente le contraddizioni del suo paese. Una band che fatichi a immaginare a Londra e invece sta benissimo a Nottingham (che nel loro slang diventa Nottz), città dalla quale è partita la loro scalata alle classifiche britanniche e ai festival di tutto il mondo. Sono sempre stati indipendenti, e il massimo del compromesso che hanno fatto finora è stato quello di firmare nel 2016 un contratto con la Rough Trade, considerata il massimo punto d’arrivo per chi non vuole avere niente a che fare con le major. Due che si presentano sul palco con un computer portatile e un microfono, senza orpelli.

Gli Sleaford Mods, nonostante siano famosi nel Regno Unito e ormai abbiano un ottimo seguito anche all’estero, non hanno smesso di rappresentare le persone “senza voce”, come le definivano nel documentario biografico Bunch of kunst: i poveri, gli emarginati, i disoccupati, gli alcolizzati. Del resto Jason Williamson, un cantante cresciuto ascoltando Paul Weller e i Public Enemy, famoso per esprimere opinioni senza nessun tipo di filtro, fino a qualche anno fa era proprio uno dei “senza voce”: beveva troppo e faceva la spola tra un lavoretto sottopagato e l’altro, passando da un supermercato a uno stabilimento di polli. Si usano spesso frasi retoriche come “la musica l’ha salvato”, ma in questo caso è andata proprio così.

Nel nuovo disco del gruppo, Uk grim, c’è una canzone che parla proprio di quegli anni. S’intitola Till dipper. “Quando avevo 16 anni rubavo i soldi dalla cassa del supermercato dove lavoravo. Chiaramente in quel periodo la mia vita non era il massimo”, commenta Jason Williamson in collegamento su Zoom da casa sua con un forte accento delle East Midlands. Indossa una felpa blu e sfoggia la solita frangia cortissima, da vero mod. Nell’altra metà dello schermo invece si vede Andrew Fearn, l’altro componente del gruppo, cappellino e barba lunga, che si occupa di più della produzione e delle parti strumentali delle canzoni.

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In Uk grim, come spesso capita con gli Sleaford Mods, l’autobiografia si mescola con l’attualità. L’eco della Brexit, ovviamente, è molto forte. E Williamson, come al solito, ne ha per tutti, a partire da se stesso. Nel brano iniziale Uk grim parla delle contraddizioni alla base del successo della band, cita Vladimir Putin e la guerra in Ucraina e soprattutto critica ferocemente il suo paese, un posto “dove nessuno riesce a sentirti gridare”. “So che stiamo giocando al gioco dell’industria discografica, ma quella per noi è sopravvivenza, non me frega un cazzo di quello che dicono gli altri, noi non siamo cambiati”, risponde il cantante, che spiega anche come questo disco sia leggermente diverso dai precedenti: “Siamo più vecchi (entrambi hanno poco più di cinquant’anni, ndr). Siamo ancora arrabbiati, ma riusciamo a controllare meglio le nostre emozioni, e si sente”.

Rispetto al passato, Uk grim ha un suono leggermente diverso. L’aggressività non manca (in brani come la già citata Till dipper, Tory Kong e Right wing beast), ma ci sono anche episodi introspettivi (I Claudius, nel quale la band racconta un Natale in famiglia alla fine degli anni settanta, e Apart from you). E ci sono anche due ospiti: Florence Shaw dei Dry Cleaning canta nella macabra Force 10 from Navarone e Perry Farrell dei Jane’s Addiction rappa nella bizzarra So trendy. Com’è nato il suono dei nuovi brani? “Abbiamo lavorato con la solita filosofia. Per me fare musica è un divertimento, è una ricerca continua della spontaneità. Lo facciamo tutti i giorni. Ma non vedo perché dovremmo cambiare il modo in cui lavoriamo, per noi è più facile lavorare da soli, senza un produttore esterno. Non c’interessa usare suoni particolarmente sofisticati”, spiega Andrew Fearn. E se li chiamasse un grande produttore come Rick Rubin, cosa gli direbbero? “Gli diremmo di no, cazzo. A che servirebbe? Entrerebbe in studio e farebbe suonare tutto di merda. Quel tipo si piace troppo”, dice Williamson. E Fearn, che nel frattempo si è fatto una tazza di tè, gli fa eco: “Molte band vengono imboccate dalle major o dai grandi produttori, non hanno il controllo totale sulla loro musica. Se fossimo un trio chiamerei Steve Albini, mi piace molto come lavora. Ma non facciamo musica del genere”.

In un altro brano, D.I. why, Williamson se la prende con le band della scena post-punk britannica, che accusa di essere “tutte uguali”. Nessun riferimento agli Idles stavolta, altra famosa band della scena britannica, con i quali in passato Williamson non era stato particolarmente tenero. “No, non ce l’ho con loro. Ho chiesto scusa al cantante degli Idles. Non sono il mio genere di musica, ma ho fatto il bullo, ho sbagliato. Nel Regno Unito di recente sono venute fuori un sacco di band che fanno abbastanza schifo. Questo non vuol dire che devo insultarle sui social network, ma neanche che mi debbano piacere per forza. E poi di solito ascolto musica diversa, non è che mi sento tutti i giorni i Minor Threat o altri gruppi punk”. Cosa ascolta in questi giorni, quindi? “Quasi niente in realtà, a parte la nostra musica. Ah, ogni tanto mi sento Oxy music di Alex Cameron, un disco di pop elettronico. Molto bello”. Dopo l’intervista ho ascoltato Oxy music, mi è sembrata la cosa più lontana che ci possa essere da Jason Williamson.

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A proposito di politica, in I Claudius Williamson canta: “Cosa c’è di sbagliato nell’amare il tuo paese? Tutto!”. Un verso che lui spiega così: “Non abbiamo tempo per il patriottismo. Che senso ha amare il tuo paese se il tuo paese è fottuto? I nostri politici sono stupidi, cattivi, razzisti e fascisti. Dobbiamo pensare a sistemare le cose. Non siamo tipi che suonano con la Union Jack addosso o che mettono la bandiera fuori di casa, come gli statunitensi”, ribatte il cantante.

A un certo punto gli chiedo cosa faranno nei prossimi mesi. “Andremo sicuramente in tour”, rispondono. Verranno anche in Italia. “Ancora non c’è niente di ufficiale, ma probabilmente faremo una data nel vostro paese”, ribattono.

Qualche mese fa Kae Tempest, che di poesia se ne intende, ha definito Jason Williamson un poeta: “È stato molto carino a dirlo, è un complimento e lo accetto volentieri. Ma non mi riconosco nell’idea classica di poesia, mi fa pensare alla borghesia, a una cosa chic. Non l’ho studiata a scuola, non mi è mai interessata”. Da dove nascono quindi i suoi testi? Cosa lo ispira? “La vita di tutti i giorni. Le piccole cose che vengono fuori dal cazzeggio in tour tra me e Andrew, quelle che ci fanno ridere, o i nostri ricordi di quando eravamo bambini.

In Just like we do, un pezzo del 2017, gli Sleaford Mods cantavano “Punk’s not dead”, il punk non è morto. Lo pensano ancora? “Il punk non morirà mai. È solo un po’ stanco. Ma il punk, come l’hip hop, è un’etica, un’attitudine. Usare il cuore è punk”, risponde Williamson.

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