12 aprile 2020 12:45

Per molto tempo ho pensato di essere l’unico fortunato della mia famiglia, perché ero sfuggito al blocco di Wuhan.

È la città che considero casa mia. Ci ho vissuto per tutta la vita, prima di trasferirmi a Pechino per gli studi universitari e poi a New York. I miei genitori e mio nonno materno, che ha 82 anni, vivono ancora lì. Il 23 gennaio, quando la metropoli è stata isolata per contenere la diffusione del Sars-cov-2, la mia famiglia si è trovata in trappola insieme a milioni di altre perone, compresi quelli che erano tornati a casa per la settimana di vacanze del nuovo anno cinese.

Da New York, a migliaia di chilometri di distanza, ho partecipato in videochiamata alla cena di famiglia per l’anno nuovo. A causa delle misure di contenimento la tavolata non era grande come in passato. “È un bene che quest’anno tu non sia venuto”, mi ha detto mia madre.

Nelle settimane successive ho deciso che l’unica cosa che potevo fare era chiamare i miei familiari per assicurarmi che stessero bene. Al telefono gli ho ripetuto un’infinità di volte di indossare le mascherine e di lavarsi le mani. Loro hanno cercato di tranquillizzarmi dicendomi che andava tutto bene.

Studiare e cucinare
Quelle telefonate mi hanno aiutato a non perdere il senno. Anche se si trovavano in una situazione impensabile fino a quel momento, i miei familiari hanno continuato a mangiare a sufficienza, trovando persino il modo di divertirsi. Mio padre è stato nominato cuoco della casa, mentre mia madre ha approfittato del fatto di non poter lavorare per studiare inglese online e per pulire a fondo la casa.

Eppure, durante le nostre telefonate, ci sono stati momenti in cui ho avuto la sensazione di quanto la loro vita fosse stata sconvolta. Mio nonno ha problemi di udito e ha bisogno di un apparecchio acustico anche per fare una conversazione elementare. Cinque giorni dopo l’inizio del blocco, mia madre si è accorta che le scorte di batterie per l’apparecchio erano quasi finite. Ha provato a ordinarle online, ma le batterie non sono mai arrivate perché il trasporto di merci a Wuhan era stato interrotto per beni considerati non essenziali.

“Tra qualche giorno il nonno non potrà più sentire nulla”, mi ha confessato mia madre durante una telefonata, a febbraio. Non sono riuscito a elaborare una risposta. La possibilità che mio nonno sprofondasse in un mondo silenzioso, dopo che era già stato tagliato fuori da ciò che succedeva all’esterno, era troppo triste. Dopo la telefonata quel pensiero ha continuato a perseguitarmi per giorni. Fino a quando non si è presentato un problema ancora più grande.

In sostanza ero sfuggito al blocco in un epicentro nazionale per finire nella stessa situazione dall’altra parte del mondo

Il 3 marzo ho percepito il primo momento di paura a New York. Quel giorno si è saputo che la seconda persona risultata positiva nello stato non aveva viaggiato all’estero. Era un segno evidente che il virus aveva cominciato a diffondersi in città. Da quel momento la situazione è precipitata rapidamente. Sei giorni dopo la Columbia University ha sospeso tutte le lezioni nel campus. Da mesi preparavo un viaggio in Nepal che avrei dovuto fare a marzo, per portare avanti le mie ricerche per il master, ma è stato cancellato all’ultimo momento.

Poi, all’improvviso, l’intero paese è stato travolto dal covid-19. L’11 marzo il campionato di basket è stato sospeso. Gli studenti delle scuole pubbliche sono stati mandati a casa. Gli americani si sono ritrovati al centro di una pandemia.

Finora la città di New York conta più di 92mila casi di contagio e 6.200 morti. Entrambi i dati superano i numeri ufficiali di Wuhan, e continuano a crescere. Il 22 marzo, esattamente due mesi dopo la chiusura di Wuhan, le autorità di New York hanno imposto l’isolamento domiciliare per la popolazione, ordinando a tutti i lavoratori non essenziali di restare in casa e minacciando di multare chi non avesse rispettato le misure. In sostanza ero sfuggito al blocco in un epicentro nazionale per finire nella stessa situazione dall’altra parte del mondo.

Futuro diverso
Di questi tempi trascorriamo le giornate circondati dalle mura dei nostri appartamenti, cercando di vivere da remoto attraverso le videochiamate o le lezioni virtuali. La notte ci preoccupiamo per la nostra sicurezza e per quella delle persone che ci sono vicine. Due miei amici hanno pensato di aver contratto il virus, ma sono rimasti in casa resistendo al dolore e alla febbre senza sottoporsi al test. Il pericolo sembra dietro l’angolo.

Le carenze stanno diventando un problema, ma sono fortunato, perché nella mia famiglia il gene dell’accumulazione compulsiva è molto forte. Quando i miei amici sono rimasti a corto di mascherine io non mi sono preoccupato, perché avevo ancora quelle che ho comprato l’anno scorso quando ho preso l’influenza. Durante il blocco di Wuhan i miei familiari non potevano andare a fare la spesa, ma mi hanno rassicurato dicendo che nel freezer avevano scorte di carne per due mesi.

Anche se io e la mia famiglia abbiamo vissuto (e continuiamo a vivere) le stesse limitazioni e frustrazioni in due continenti diversi, c’è una profonda differenza: il futuro.

Wuhan ha combattuto una lunga e faticosa battaglia contro la malattia, e sta per uscire dalla fase più grave. I medici volontari arrivati da altre città hanno terminato il loro lavoro e sono partiti. Le strutture d’emergenza costruite per la quarantena sono state chiuse. L’8 aprile i confini della città sono stati riaperti, insieme ad aeroporti, stazioni ferroviarie e autostrade (anche se le autorità continuano a raccomandare di evitare gli spostamenti).

Mia madre e mio padre sono tornati al lavoro. La settimana scorsa mio padre e mio nonno, dopo una lunga attesa, sono andati finalmente dal barbiere. Mentre tornavano a casa hanno comprato un po’ di jìcài (la pianta chiamata borsa di pastore) per celebrare la festività lunare del 3 marzo, una tradizione che mi ha accompagnato per tutta l’infanzia. La normalità sta tornando, lentamente ma in modo incoraggiante.

La tempistica sfalsata ha invertito i ruoli. Ora sono i miei familiari che si preoccupano per me

A New York, invece, il futuro è ancora incerto. Giorno e notte le ambulanze corrono sul viale davanti alla mia finestra. Un ospedale da campo con 200 posti letto sarà costruito nel Bronx per curare i pazienti covid-19. Tutti sperano che sia arrivato il momento in cui la curva comincia ad appiattirsi, ma nessuno ne è sicuro. Quando racconto ai miei genitori cosa sta succedendo a New York, mi rispondono che è molto simile alla situazione di Wuhan nei primi giorni.

La tempistica sfalsata ha invertito i ruoli. Ora sono loro che si preoccupano per me.

Mia madre mi telefona a giorni alterni per chiedermi se sono uscito, esattamente come facevo io settimane fa. L’altro giorno le ho mandato la foto di uno stufato alla coreana che avevo preparato. Si è insospettita. “Non sembra che l’abbia cucinato tu. Per caso stai andando a mangiare fuori?”. L’ho preso come un complimento.

Devo ammettere che la frequenza delle telefonate a volte è un po’ eccessiva, ma capisco. Tocca a me adesso essere rassicurante.

E comunque le nostre conversazioni sono rinfrancanti. Quando parlo con i miei amici americani gli racconto che la mia famiglia, a Wuhan, sta superando la fase del blocco. “Probabilmente è la più bella notizia che abbia sentito oggi”, mi ha risposto uno dei miei professori.

Mia madre mi ha raccontato che la mattina del 9 aprile, la prima dopo la fine del blocco, a Wuhan c’erano già gli ingorghi. Sul ponte sul fiume Yangtze, fondamentale per gli spostamenti all’interno della città, è stato imposto un sistema di targhe alterne. È come se questa metropoli di undici milioni di abitanti (la più popolosa della Cina centrale) stia tornando alla vita.

Certo, è una vita un po’ diversa. Gli abitanti devono sottoporsi a controlli della temperatura e del loro stato di salute ogni volta che escono dal quartiere, prendono la metropolitana o entrano in un ristorante. “A essere onesta preferirei restare a casa”, mi ha confessato mia madre in una conversazione recente, sorprendendomi. Mi ha detto che il suo ufficio è freddo perché è vietato attivare il sistema di riscaldamento. Spostarsi in città, inoltre, significa esporsi al virus come mai prima d’ora.

“Ma è anche vero che restare in casa non era proprio piacevole”, ha ammesso mia madre.

È arrivata una buona notizia: mio nonno, mentre cercava di combattere la noia, ha trovato due pacchi di batterie nuove in fondo all’armadio. Conserverà l’udito almeno per un altro mese. A quel punto immagino che le consegne saranno ripristinate, le persone potranno salutarsi per strada e l’esistenza, a Wuhan, avrà ripreso una parvenza di normalità. Spero di poter dire lo stesso di New York.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Quest’articolo è uscito sul sito SupChina.

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