07 luglio 2010 00:00

I palestinesi devono lasciare le case costruite su terreni che prima appartenevano a comunità ebraiche, ma agli israeliani non viene chiesto lo stesso, scrive Amira Hass.

Zviya Shapira, 60 anni, professoressa di biologia, è un’attivista contro l’occupazione. Di estrazione sionista, i suoi tre figli maschi sono diventati refusenik (obiettori di coscienza) dopo aver servito in unità militari d’élite. Il più giovane è stato in carcere, il maggiore è stato espulso dall’esercito ed è considerato da molti israeliani “un nemico del popolo”.

Il 3 luglio ci siamo incontrate alla manifestazione settimanale del quartiere di Sheikh Jarrah. “Yonathan (il maggiore) è tornato ieri dall’estero”, mi ha raccontato Zviya, aggiungendo con orgoglio: “Oggi è stato arrestato dall’esercito alla manifestazione di Nabi Saleh” (uno dei tanti villaggi palestinesi in cui si organizzano proteste settimanali). Anche Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, ospita regolarmente le proteste contro l’apartheid israeliana. Alcune famiglie palestinesi, profughe del 1948, hanno ricevuto dal tribunale l’ordine di lasciare le loro case, costruite sui terreni che prima del 1948 appartenevano a una comunità ebraica. Sul posto si stanno insediando famiglie ebree ortodosse, che rendono un inferno la vita dei pochi palestinesi rimasti.

Ma ci sono milioni di ebrei israeliani che vivono su terreni appartenuti ai palestinesi. E non c’è nessun giudice israeliano che ne ordini il trasferimento forzato. Due popoli, due giustizie. Molti israeliani partecipano alle proteste nei villaggi, ma nei principali mezzi d’informazione palestinesi non se ne parla mai. Un altro motivo di strazio per le due metà della mia vita.

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