07 ottobre 2013 18:02

“Mi sento come se mi stesse interrogando lo Shin Bet”, mi disse 23 anni fa un ufficiale dell’esercito israeliano che aveva il compito di raccogliere informazioni sulla società della Striscia di Gaza. Allora lo presi come un complimento, anche perché era una delle prime “storie” di cui mi occupavo (quando Gaza era ancora sotto occupazione diretta israeliana). Se non ricordo male il mio articolo parlava degli incontri tra il regista francese Claude Lanzmann e alcuni abitanti di Gaza, che dovevano essere preventivamente autorizzati proprio dall’ufficiale dell’esercito.

Quella frase che considerai un complimento perché pronunciata da un ufficiale israeliano costituirebbe per me un grande problema etico se a rivolgermela fosse un palestinese. Questioni etiche di questo tipo mi accompagnano fin dall’inizio del mio lavoro nei territori occupati.

Da quando gli ebrei hanno cominciato a fondare le loro colonie in Palestina, hanno sviluppato vari metodi per raccogliere informazioni sui loro vicini palestinesi, e non solo per “motivi di sicurezza”. Queste informazioni hanno dato agli ebrei un ulteriore vantaggio rispetto ai palestinesi. Ancora oggi dettagli anche banali sono raccolti e condivisi da vari organismi israeliani: lo Shin Bet, l’amministrazione civile controllata dall’esercito, i consiglieri per le questioni arabe di Gerusalemme, le ong di destra, i coloni che vogliono comprare terre e case. In qualche modo anche i giornalisti fanno parte di questa gigantesca attività di voyeurismo voluto o casuale.

Nelle relazioni asimmetriche tra palestinesi e israeliani, infatti, il confine che separa un informatore al servizio di Israele da un giornalista professionista è molto labile. In una situazione normale, i dettagli servirebbero a comporre un quadro sociologico completo. Nella situazione reale, i dettagli possono servire a confermare gli stereotipi più arroganti.

Tutto questo influenza anche le indagini che sto svolgendo sull’aumento della violenza nella società palestinese, ma di questo magari parleremo un’altra volta.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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