03 luglio 2017 18:00

“Una volta abbiamo diviso la camera con una signora. Poveretta, non riceveva quasi mai visite. Suo marito è venuto solo una volta in due settimane. È rimasto due ore e poi è andato via. Lei ha provato a giustificarlo dicendo che doveva fare un lungo viaggio per arrivare lì. La signora ha una figlia e una nipote nell’esercito. Ne abbiamo sentito parlare, ma non le abbiamo mai viste. Le abbiamo preparato il tè e l’abbiamo aiutata a scendere dal letto. Probabilmente ha 80 anni, ma sembra più giovane”.

“Gli ebrei ortodossi sono come noi palestinesi. Se qualcuno è in ospedale riceve moltissime visite. Una volta hanno portato i materassi e hanno dormito in sala d’attesa. L’infermiera gli aveva proibito di dormire nella stanza dov’era ricoverato il parente. Anche loro portano cibo e organizzano picnic al capezzale del malato. Invece gli ebrei laici passano quasi tutto il tempo da soli”.

Queste sono le riflessioni di due mie amiche di Gaza di cui ho già parlato più volte. La sorella maggiore continua a sottoporsi alle cure di cui ha bisogno, tra alti e bassi, mentre la più giovane le tiene compagnia 24 ore al giorno, sette giorni su sette, a 70 chilometri da casa (che per un abitante di Gaza è un altro universo). Alcuni miei amici (ebrei) hanno assunto il ruolo di addetti al picnic per le due ragazze palestinesi. I genitori, a Gaza, conoscono tutti i miei amici per nome dai loro racconti. Una piccola isola di serenità e altruismo in un oceano di grande crudeltà.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 30 giugno 2017 a pagina 25 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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