18 giugno 2018 17:46

Come prevedevo, il mio autista è arrivato in ritardo di quaranta minuti. Vive a Gerusalemme, quindi non sapeva che le strade di Ramallah nelle sere di Ramadan si riempiono di auto e di persone provenienti da tutti i villaggi della zona. Solo un palestinese di Gerusalemme può accompagnarmi all’aeroporto della città. “Quelli della Cisgiordania pensano che siamo fortunati perché abbiamo un documento d’identità emesso dal comune di Gerusalemme”, mi ha detto l’autista, che ha 24 anni. Intanto gli indicavo la strada da percorrere attraverso villaggi di cui non conosceva neanche l’esistenza.

Questa cosa mi ha rattristato molto: la frammentazione della Cisgiordania è ormai così impressa nella loro mente che i palestinesi non conoscono più posti lontani appena venti chilometri da casa. Il ragazzo mi ha chiesto quanto pago d’affitto. “Se pagassi così poco, mi sarei già sposato”. Lui invece vive ancora con i genitori. “Ma se mi trasferissi a Ramallah, perderei lo status di residente permanente di Gerusalemme. Invece un israeliano che va a vivere in una colonia mantiene tutti i diritti. È così ingiusto”. Ero d’accordo con lui.

Sulla strada d’ingresso all’aeroporto un’agente di sicurezza etiope ci ha chiesto di consegnarle i documenti e di aspettare. Voleva sapere come avevo conosciuto l’autista e se eravamo parenti. Ha controllato il bagagliaio. Lui è stato convocato per un’ispezione. Ero molto arrabbiata. Ma alla fine lui mi ha detto: “Non preoccuparti, è normale”.

(Traduzione di Francesca Gnetti)

Questa rubrica è uscita il 15 giugno 2018 nel numero 1260 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero| Abbonati

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