06 giugno 2020 09:45

Cos’è che aspetto con più impazienza, con la fine del lockdown? Più di qualsiasi altra cosa, che si stabiliscano le responsabilità di tutti. Il 24 marzo il primo ministro indiano Narendra Modi ha annunciato il lockdown più punitivo e meno pianificato del mondo, dando a 1,38 miliardi di persone solo quattro ore di preavviso. Dopo 55 giorni di confinamento, anche secondo gli inaffidabili dati ufficiali, la curva dei casi positivi al covid-19 in India è salita da 545 a più di centomila. Alcune persone della squadra messa in piedi da Modi per affrontare l’emergenza hanno dichiarato che il distanziamento è fallito per il modo in cui è stato messo in pratica. Fortunatamente molti pazienti sono asintomatici e, se paragonato a Stati Uniti ed Europa, il numero di persone in terapia intensiva è stato relativamente basso. Dopo tutte le metafore militari, gli allarmismi, l’istigazione all’odio che hanno circondato la malattia, ora ci dicono che dovremo imparare a convivere con il virus.

In India siamo bravi a convivere con le malattie. Finora, secondo le statistiche del governo, nel paese ci sono stati poco più di quattromila morti per il coronavirus. A partire dal 30 gennaio 150mila persone, per lo più povere, sono morte di un’altra malattia respiratoria contagiosa, la tubercolosi, molto spesso nella forma resistente ai farmaci.

Grazie a questo confinamento improvvisato, negli ultimi giorni (per il Kashmir in realtà i giorni di lockdown sono più di 120 e i mesi senza internet dieci) l’India ha assistito a un incubo dal quale potrebbe non riprendersi mai completamente. Già prima della chiusura la disoccupazione era ai suoi massimi in 45 anni. E si calcola che il lockdown invece sia costato 135 milioni di posti di lavoro. Milioni di lavoratori si sono trovati bloccati nelle città senza cibo, alloggio, soldi o mezzi di trasporto. L’esodo di persone traumatizzate e costrette a camminare centinaia di chilometri dalle città ai loro villaggi è cominciato il 25 marzo e oggi è diventato un diluvio. Private di dignità e speranza, queste persone hanno percorso centinaia di chilometri a piedi, in bicicletta, oppure ammassate illegalmente in camion privati, come se fossero merci. Hanno portato con sé il virus, diffondendolo nelle campagne più remote del paese. Molti sono morti di fame o di sfinimento, oppure in incidenti stradali. Per evitare la violenza della polizia mentre camminavano lungo le autostrade, hanno cominciato a muoversi lungo i binari ferroviari. Dopo che 16 persone sono rimaste schiacciate da un treno merci, le forze dell’ordine hanno cominciato a pattugliare anche i binari. Oggi vediamo uomini e donne guadare i fiumi, sollevando i bagagli e i bambini. Vanno a casa, dove troveranno fame e disoccupazione. Assistiamo a resse per procurarsi da mangiare, vediamo fermate dell’autobus e stazioni ferroviarie (dove il distanziamento sociale è una barzelletta) prese d’assalto per provare a salire sui pochi treni e bus che il governo ha organizzato. Abbiamo solo una vaga idea dell’orrore.

Apartheid religioso
Nei suoi discorsi alla nazione, Modi ha parlato solo una volta di questo esodo, e di sfuggita, rivestendolo delle nozioni indù di tapasya e tyaag: penitenza, autoflagellazione e sacrificio. Nel frattempo, grazie alla celebrata operazione Vande Bharat (onore all’India), gli indiani bloccati all’estero sono tornati in patria. Per rassicurare le classi sociali che prendono l’aereo e si preoccupano del distanziamento sociale, alcuni servizi televisivi mostrano i raffinati protocolli di sanificazione negli aeroporti e sugli aerei. Nell’era del covid-19 una simile attenzione nei confronti di una classe sociale e una così sfacciata crudeltà nei confronti di un’altra avrebbero senso solo se, in futuro, la classi che volano e quelle che camminano venissero separate le une dalle altre, senza quasi mai incontrarsi. Abbiamo convissuto per secoli con l’“intoccabilità”, un apartheid di casta. Ora si prepara l’apartheid religioso.

Abbiamo una nuova legge antislamica sulla cittadinanza e un nuovo registro della cittadinanza. Chi protestava, principalmente giovani musulmani, è stato arrestato. In India ghetti musulmani ed enormi centri di detenzione sono già una realtà. Possiamo salutare l’avvento dell’apartheid di classe. È l’era dell’assenza di contatti, nella quale i corpi di una classe sociale sono visti come un rischio biologico per un’altra. A questi corpi che costituiscono un rischio sarà chiesto di lavorare in condizioni pericolose, senza le protezioni che si possono permettere i privilegiati. E le persone che si occupano di fare intermediazione saranno sostituite da macchine che non presentano rischi. Cosa ne sarà della classe lavoratrice in eccesso, che è il grosso della popolazione mondiale, non solo in India, ma in tutto il pianeta? Chi verrà ritenuto responsabile di quest’apocalisse? Non un virus, spero. Abbiamo bisogno di processi covid. In un tribunale internazionale. È questo il mio desiderio finito il lockdown.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul numero 1360 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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