03 marzo 2020 17:08

Le proteste contro la nuova legge sulla cittadinanza che discrimina i musulmani, organizzate a New Delhi e in altre città dell’India, avevano dato ai cittadini indiani la speranza di avere una legittimità democratica, morale e intellettuale nel mettere in discussione leggi approvate dal governo. Ma le rivolte antimusulmane avvenute nella capitale tra il 24 e il 26 febbraio hanno distrutto questa speranza.

La nuova legge (Citizenship amendment act, Caa), che garantisce una corsia preferenziale alla cittadinanza indiana ad alcune minoranze religiose ma, fatto fondamentale, non ai musulmani, è stata vista da avvocati, attivisti e intellettuali, oltre che dalla comunità musulmana, come restrittiva e contraria al principio di uguaglianza sancito dagli articoli 14 e 15 della costituzione. Alcuni hanno visto nella misura una mossa preparatoria al registro nazionale della cittadinanza (Nrc), che è attualmente in fase di valutazione da parte del governo.

Le pacifiche proteste della comunità musulmana – spesso guidate da donne, attivisti politici e sociali, scrittori, artisti e studenti di tutte le religioni – hanno segnato un momento senza precedenti nella storia postcoloniale dell’India. Hanno sottolineato l’intensa vicinanza tra persone di fede diversa in India. I luoghi delle proteste, come Shaheen Bagh, Seelampur e Jaffrabad sono stati prevalentemente i quartieri musulmani della classe operaia, nei quali si sono viste persone di ceti diversi prendere parte alle proteste. Queste proteste non hanno solo offerto alcuni importanti spunti a proposito dell’efficacia della resistenza non violenta, ma hanno anche prodotto alcune nuove lezioni sull’armonia interreligiosa.

L’incapacità della polizia nel gestire le violenze è un segno inquietante della complicità dello stato

Questa articolazione democratica del dissenso non ha però addolcito l’immagine dei manifestanti né agli occhi dell’establishment né a quelli dei sostenitori del nazionalismo indù. Tanto che Kapil Mishra, del partito al potere Bharatiya janata party (Bjp), ha tenuto un discorso in cui ha minacciato azioni di giustizia sbrigativa contro i manifestanti, alla presenza di agenti di polizia.

L’incapacità della polizia di Delhi nel gestire le violenze che si sono diffuse nei quartieri a maggioranza musulmana è un segno inquietante ma ricorrente della complicità dello stato: colpisce la temerarietà di una folla che incendia e compie apertamente atti di violenza nelle strade della capitale. Il senso di impunità è palpabile.

Le minacce di violenza nei confronti dei manifestanti contrari alla riforma si sono trasformate in realtà. A oggi almeno 47 persone sono morte durante i disordini, mentre i feriti sarebbero circa duecento, settanta dei quali per ferite da arma da fuoco. Il numero di morti e feriti dà la misura del terrore, della violenza e delle umiliazioni con cui i musulmani hanno dovuto fare i conti nella capitale dell’India in questi giorni.

Le bande di ultranazionalisti indù hanno picchiato chiunque si presentasse come un musulmano o ne avesse l’aspetto, e hanno distrutto le proprietà di molti cittadini islamici. Alcuni di coloro che hanno partecipato a questi attacchi li hanno ammessi, pur se anonimamente, sul sito d’informazione The Wire, apparendo carichi di odio. Hanno dichiarato che il loro risentimento scaturisce dal fatto che i musulmani avevano protestato contro la nuova legge. Quindi va bene che i musulmani vivano nella paura, ma non che facciano valere i propri diritti.

Senza morale
Una bandiera con un simbolo religioso indù è stata issata sulla cima di una moschea vandalizzata ad Ashok Nagar, uno dei quartieri nordorientali di New Delhi. Simili atti tradiscono un’interpretazione cinica della religione, la fede viene svuotata delle sue radici spirituali e i vincoli etici sono sostituiti da una barbarie senza limiti.

Babasaheb Ambedkar ha scritto nel libro Untouchables or the children of India’s ghetto (Intoccabili o i figli del ghetto indiano) che negare arbitrio morale ai dalit ha impedito alla società indù di sviluppare un senso di “coscienza sociale” o “pubblica”. Questo porta a una mancanza di senso di colpa morale. Tracciando un’analogia con le società primitive, Ambedkar ha affermato che, così come “l’illegalità contro gli stranieri è legale”, le atrocità contro le persone ritenute al di fuori del territorio della moralità non vengono considerate un crimine.

Estendendo l’analogia di Ambedkar, se una certa minoranza viene dipinta come “straniera”, ovvero estranea all’immagine culturale della nazione, allora tutte le sanzioni laiche che garantiscono l’uguaglianza delle minoranze di fronte alla legge possono essere vanificate da una legge territoriale di violenza. Nella storia del paese già abbastanza sangue è stato versato: nel 1984, nel 1992, nel 2002 e ora nel 2020. La storia postcoloniale dell’India è segnata da molte ferite.

Stavo tornando dall’aeroporto una settimana prima delle elezioni di New Delhi, all’inizio di febbraio, e le proteste contro la legge sulla cittadinanza erano in pieno svolgimento. La macchina della propaganda era già al lavoro contro i manifestanti musulmani.

Il mio tassista indù mi ha detto che i quartieri musulmani di Delhi sono luoghi pericolosi, poiché lì le persone venivano accoltellate. Gli ho chiesto se conosceva o aveva incontrato qualcuno che fosse stato accoltellato. No, mi ha detto, sorpreso perfino del fatto che potessi fargli una domanda del genere.

Gli ho detto che era nella sua testa che esisteva un coltello immaginario, e che là fuori c’erano persone che ne stavano conficcando altri nella testa di altre persone per diffondere queste dicerie di violenza, rendendo così possibile la violenza reale. E alla fine, oggi, i musulmani vengono effettivamente colpiti nei loro quartieri, con queste rivolte. La realtà è la crudele antitesi delle dicerie.

È una tattica politica quella di diffondere dicerie contro le minoranze, preparandone la demonizzazione per rendere accettabile la violenza nei loro confronti. Le paranoie della maggioranza fanno sì che le persone abbocchino a simili trappole divisive, mentre la sicurezza che percepiscono nelle loro vita cade progressivamente preda di simili paure infondate.

Solo quando non c’è niente da perdere si può far credere alle persone che abbiano tutto da perdere. L’orchestrazione dell’odio sfrutta paure come queste, e porta la maggioranza delle persone a perdere la ragione e una parvenza di moralità.

La politica della violenza sfrutta questo stato di tensione, ed è in situazioni del genere che una nazione rischia di perdere il suo valore.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it