08 giugno 2015 08:57

Non possiamo che accogliere con entusiasmo la maturità di questo paese. Domenica i turchi sono stati chiamati a rinnovare il loro parlamento, in uno scrutinio che non è stato esclusivamente parlamentare perché il presidente Recep Tayyip Erdoğan, eletto dieci mesi fa a suffragio universale, dopo essere stato negli ultimi 12 anni l’onnipotente primo ministro del paese, ha trasformato il voto in un referendum sul passaggio a un regime presidenziale.

Per raggiungere il suo scopo Erdoğan avrebbe dovuto ottenere due terzi dei seggi, ovvero la maggioranza richiesta per un cambiamento della costituzione. Gli elettori turchi, invece, gli hanno accordato appena il 41 per cento dei voti, insufficienti a garantire al suo partito (Akp) la possibilità di governare da solo. La Turchia ha detto no e ha inflitto a Erdoğan la sua prima sconfitta in 13 anni di storia perché non ha voluto accrescere i poteri di un uomo la cui deriva autoritaria e megalomane è diventata francamente inquietante.

I turchi hanno deciso di votare in difesa della democrazia, ma non è tutto. Affinché il presidente fosse messo in minoranza c’era bisogno che il partito curdo Hdp superasse la soglia di sbarramento del 10 per cento. Il partito è storicamente legato al Pkk, l’organizzazione politico-militare che da tempo sostiene la causa dell’indipendentismo curdo a colpi di attentati e omicidi.

Ciononostante l’Hdp, sotto la guida del giovane leader Selahattin Demirtaş, ha saputo riposizionarsi come partito della nuova sinistra ecologista, femminista e aperta alla causa degli omosessuali, affermandosi come rappresentante di quelle classi medie urbane che si sono imposte sullo scacchiere politico durante le grandi manifestazioni di due anni fa in piazza Taksim. Diventato il partito di tutte le minoranze (non solo di quella curda), l’Hdp ha conquistato quasi il 13 per cento dei voti, ha fatto eleggere 80 deputati e ha sparigliato le carte introducendo in Turchia un riformismo radicale e non violento e modificando il paese e la rappresentanza dei curdi.

Tutto questo non garantisce il paradiso ai turchi, non alimenta una crescita che ha pericolosamente rallentato dopo un decennio di boom e soprattutto non produce una maggioranza politica in un paese che entra in un periodo di incertezza che sarà utilizzato da Erdoğan per cercare di rimettersi in sesto.

Il futuro della Turchia non sarà tutto rose e fiori. Tuttavia, dopo aver scelto la laicità e il voto per le donne (tra le due guerre) e dopo aver prodotto il primo partito islamista convertito alla democrazia (quindici anni fa), la Turchia conferma che l’islam è pienamente compatibile con le urne e con la democrazia.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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