29 settembre 2017 17:04

Vedo i miei amici con figli e mi sembrano tutti degli eroi. Ma forse ho mitizzato l’immagine del genitore? –Alessio

A vent’anni facevo il volontario al circolo di cultura omosessuale Mario Mieli. Mi occupavo del gruppo di benvenuto, dove gli iscritti venivano a presentarsi e a socializzare. Un giorno Stefania, una timida ragazzina con i capelli corti che da settimane se ne stava zitta in un angolo, si alzò in piedi e ci comunicò di essere Stefano. Anche se aveva il corpo di una ragazza, si sentiva maschio al cento per cento e ci chiese di cominciare a trattarlo come tale.

Era la prima volta che pensavo alla transessualità in quei termini, cioè slegata dall’effettivo percorso di adattamento del corpo all’identità di genere. Stefano era già un maschio perché si sentiva tale, a prescindere da qualunque decisione di intervenire sul fisico. La cosa commovente era che quel giorno si era fatto accompagnare dalla mamma, che gli era stata seduta accanto tutto il tempo. Era una donna semplice, minuta, indossava un cappotto azzurro e aveva pochi capelli in testa, cotonati il più possibile per aumentarne il volume.

L’immagine di quella piccola donna alle prese con qualcosa di enorme era anche più toccante di quella di Stefano. Perché se oggi per un genitore che affronta la transessualità di un figlio si prospetta un lungo e faticoso lavoro interiore, vent’anni fa era semplicemente una tragedia. I genitori non sono tenuti a essere eroi, ma la mamma di Stefano venuta a dargli sostegno per me fu la prova che possono esserlo.

Questa rubrica è stata pubblicata il 29 settembre 2017 a pagina 16 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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