10 gennaio 2023 13:23

Uno dei tanti aspetti discutibili del cosiddetto decreto rave (entrato in vigore dopo diversi aggiustamenti il 31 dicembre 2022) è che, nella sua sostanza, è una storia che si ripete ogni volta che un paese viene guidato da un governo di destra. Il Criminal justice and public order act, voluto nel 1994 nel Regno Unito dal governo conservatore di John Major, dava una stretta autoritaria e poliziesca contro una serie di comportamenti definiti “anti sociali”. E i free party, che dalla fine degli anni ottanta proliferavano in tutto il paese sull’onda della diffusione dell’acid house, erano diventati la scusa con cui criminalizzare forme di socialità alternativa, di resistenza o di protesta come le occupazioni, le azioni di boicottaggio contro la caccia, i presidi ambientalisti di boschi o foreste e tutte le forme di nomadismo. Agitando lo spauracchio della droga e delle occupazioni abusive il Criminal justice and public order act passò indisturbato (grazie anche a un ambizioso laburista di nome Tony Blair che chiuse un occhio) e permise a un governo conservatore di mettere a tacere qualunque forma di dissenso giovanile o controculturale.

Leggi e decreti però non hanno fermato la musica, anzi, se possibile, hanno accelerato la coagulazione di una cultura e di un’estetica della resistenza techno che sopravvive in diversi album di elettronica realizzati nel Regno Unito tra il 1990 e il 1995. Tra questi lavori spicca per ambizione, intelligenza musicale e profondità Orbital, il secondo album degli Orbital, il duo elettronico formato dai fratelli Phil e Paul Hartnoll. Anche il primo album degli Orbital, uscito nel 1991, s’intitolava Orbital: per distinguere i due lavori i fan identificano il primo come “Green album” (album verde) e il secondo come “Brown album” (album marrone). Le piattaforme di streaming, nella loro prosaica ansia di catalogazione, li chiamano banalmente Orbital 1 e Orbital 2.

Il nome Orbital fa pensare all’atomo e agli elettroni che ruotano intorno a un nucleo e molta grafica della band sembra assecondare quest’interpretazione. L’Orbital però è anche il grande raccordo autostradale (M25) che circonda Londra, un immenso loop, un non luogo circolare lungo il quale si sono succeduti i primi rave party all’origine della scena acid house di fine anni ottanta. Per approfondire, consiglio la lettura di London Orbital di Iain Sinclair (Il Saggiatore), un suggestivo reportage letterario (a piedi) lungo questo grande raccordo anulare londinese. Fin dal nome che si sono scelti, i fratelli Hartnoll rivendicano quella storia e le loro radici nel movimento nomade e interstiziale dei primi party clandestini inglesi.

Nel 1990 gli Orbital hanno un primo, inatteso successo con Chime, un pezzo techno che avevano prodotto a costo zero l’anno prima nel sottoscala di casa con un registratore a quattro tracce del padre. Chime va dritto in classifica e i fratelli Hartnoll si ritrovano dal loro sottoscala a suonare il loro pezzo alla trasmissione tv Top of the Pops. Gli Orbital non sono neanche nati e già cominciano a scalpitare: vogliono suonare dal vivo, ma la produzione li obbliga ad andare in playback come tutti gli altri artisti e loro si presentano in diretta tv con una ballerina in tenuta da raver e magliette contro la poll tax, una riforma fiscale iniqua voluta da Margaret Thatcher molto simile alla flat tax proposta oggi anche dalla destra di casa nostra.

Quello di suonare dal vivo è un pallino che non li abbandonerà mai (gli Orbital saranno il primo gruppo techno a chiudere il festival di Glastonbury nel 1994) e la loro musica, a differenza di tanta elettronica che si sentiva allora e che si sente ancora oggi, ha una forte componente d’improvvisazione. Non è esagerato dire che prima degli Orbital la musica dance elettronica era vista solo come unz unz da discoteca o ovattata musica d’ambiente per il chill-out. Loro ci hanno messo dentro anche una certa attitudine punk rock, la politica e, naturalmente, la protesta.

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Orbital 2, o se preferite il “Brown album”, si apre con lo stesso campionamento con cui si apriva il loro primo album: una battuta della serie tv di fantascienza Star Trek: The next generation in cui il tenente Worf dice: “C’è questa teoria di Möbius che deforma il tessuto dello spazio in cui il tempo diventa un loop”. E la frase “Where time becomes a loop” viene ripetuta, appunto in loop, per più di un minuto e mezzo usando la tecnica del phasing, già utilizzata da compositori come Steve Reich, ovvero la sovrapposizione di due campionamenti suonati a velocità leggermente diverse. La stessa tecnica torna anche alla fine dell’album, in Input out, in cui le frasi “input translation” e “output rotation” vengono prima sovrapposte e poi mandate a velocità diversa creando un garbuglio caotico. In questo modo l’intero album, tutta la musica delimitata dal prologo diTime becomes e dall’epilogo di Input out, può essere considerato un loop, una smagliatura nello spazio-tempo.

Ed è proprio con il tempo che giocano gli Orbital: lo allungano e lo accorciano come un elastico, secondo una tecnica di accumulo di elementi ritmici o armonici la cui dinamica viene improvvisamente rimessa in discussione con sviluppi imprevedibili e sorprendenti. Monday, per esempio, comincia con una sequenza di tastiera semplicissima e ripetitiva su cui viene sovrapposta una serie di elementi: percussioni e basso prima e poi un arpeggio di synth. Dopo una progressione normale, tipica di tanta musica dance, gli Orbital rimescolano le carte e rimontano gli stessi elementi che ci sono ormai familiari in modo completamente diverso, tanto da far cambiare in modo evidente il tono, e direi il colore, della musica. Monday parte luminosa e gioiosa per poi prendere, intorno al quarto minuto, una piega più drammatica e scura. Alla fine la canzone conclude il suo giro e torna al semplicissimo embrione da cui era scaturita. Quella degli Orbital è elettronica emozionante, piena di sfumature: è pensata per i rave, ma coinvolge anche in cuffia perché è musica in cui succede sempre qualcosa di imprevisto, ti culla per un momento e ti strattona quando meno te lo aspetti. I “repetitive beats” (i battiti ripetitivi) stigmatizzati dal testo del Criminal justice and public order act si dimostrano qui tutt’altro che ripetitivi e sfuggono a qualunque catalogazione o controllo.

Il pezzo più noto dell’album è Halcyon, già uscito in un ep chiamato Radiccio (sì, senza la h) e viene presentato qui in un remix più melodico e orecchiabile intitolato Halcyon and on and on. Halcion (con la i e non con la y) è il nome commerciale del triazolam, la benzodiazepina alla base di molti sonniferi e tranquillanti disponibili in farmacia. L’idea del pezzo nasce dal fatto che la madre dei fratelli Hartnoll soffriva da anni di una forte dipendenza da Halcion, una droga legale venduta in farmacia a differenza di quelle consumate nei rave.

La canzone è costruita su due campionamenti: uno da una hit recente degli Opus III, It’s a fine day, e l’altro da Leave it, un pezzo anni ottanta degli Yes, alfieri del più visionario e ambizioso progressive rock. Il pezzo, sognante e sospeso, insieme alle produzioni degli Orb e a quelle dei KLF è uno dei capisaldi dell’ambient house di quegli anni. Nel video compare Kirsty Hawkshaw, la cantante degli Opus III, nei panni di una casalinga stralunata e stordita che continua ad avere delle visioni mentre cerca di fare i lavori di casa. Alla fine, quando si calma, ha una dissociazione e vede se stessa entrare in cucina. Tra i commenti del video su YouTube mi ha colpito quello di un programmatore che ricorda che quando, negli anni novanta, doveva lavorare a una linea di codice particolarmente complessa metteva Halcyon degli Orbital in loop, cosa che gli permetteva di entrare di uno stato di concentrazione assoluta.

Riascoltandolo oggi in cuffia, Orbital 2 è davvero “una distorsione nel tessuto dello spazio-tempo” e questa musica, che ormai ha trent’anni, non sembra invecchiata di un giorno. Anzi, ci fa riflettere su quanto la dance si sia evoluta sia dal punto di vista tecnico sia, soprattutto, da quello del suo impatto culturale.

Orbital
Orbital
FFRR, 1993

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