20 giugno 2017 14:34

Fare la storia è l’aspirazione massima dei politici. Non c’è angolino del pianeta in cui non la si stia facendo alacremente. Né c’è un solo fazzoletto di terra dove non si pensi che la storia come la si fa lì, non la si fa da nessun’altra parte. Di conseguenza è opinione diffusa che se i risultati per ora non si vedono è perché gli altri, invece di fare la storia, fanno storie, piantano grane cioè, incapaci come sono di capire che, se la storia non la sanno fare, devono starsene zitti e basta.

Così si va di G8 in G7 in G6 e invece di fare la storia non si fa nulla. Oppure si va in Iraq, in Siria, in Libia, a Parigi, a Manchester, e invece di fare la storia si fa il massacro. Viene il sospetto che chi ha l’ambizione di fare la storia non possa che oscillare tra il niente e il massacro, tra lo stallo e la clava caso mai atomica. Cosa di cui, però, dà fastidio prendere definitivamente atto.

Forse è ora di rendersi conto che questo affidarsi ai grandi comunicatori televisivi, ai profeti del video sia armati sia disarmati, ai confezionatori davanti alle telecamere di proposizioni ispirate o dal popolo o da qualche dio o da entrambi, è pericoloso. Forse ci serve un buon artigianato diffuso, gente che, più che la storia, sappia fare discretamente politica, cioè scongiurare il massacro, evitare lo stallo, curarsi del prossimo anche il più distante, allontanare il nulla.

Questa rubrica è stata pubblicata il 16 giugno 2017 a pagina 12 di Internazionale.Compra questo numero| Abbonati

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