03 dicembre 2016 14:30

“Daniel Mantovani creò un universo potente intorno alla sua terra natale pur avendo sempre vissuto in Europa. La sua opera affronta i grandi temi universali raccontando la storia intima del paesino d’origine e della sua prima giovinezza: Salas, in provincia di Buenos Aires, Argentina”. Dai titoli di testa su fondo nero, emerge una voce lontana ma solenne che pronuncia le parole che avete appena letto. Parole che sotto la superficie enunciano molto di quello che anima Il cittadino illustre commedia divertente, profonda e originale, degli argentini Mariano Cohn e Gastón Duprat, presentata in concorso a Venezia, dove l’attore protagonista, Oscar Martínez, ha vinto una più che meritata Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile.

Daniel Mantovani, uno scrittore argentino praticamente esiliato in Spagna, riceve il Nobel per la letteratura, apoteosi di un lungo percorso artistico. Durante il discorso all’Accademia di Svezia, alla presenza dei reali, spiega che questi riconoscimenti contrastano “con lo spirito dell’arte” e ispirano il suo “rammarico” per la “canonizzazione finale come artista”. Mantovani non è un artista che si crogiola nelle vestigia del passato. Significativo è il lavoro dei due registi sullo spazio della grande villa moderna dove si rintana, per darne risalto: davvero notevole l’inquadratura dall’alto della gigantesca biblioteca, degna di un Borges, dove la parte alta, un moderno salone panoramico, è immersa totalmente nella luce diurna, mentre la parte bassa, l’antico, è immersa nel buio, nei chiaroscuri.

Nel grande salone la segretaria gli comunica gli innumerevoli premi, riconoscimenti, inviti dal mondo intero, spesso di altissimo livello, che riceve e sistematicamente rifiuta o annulla. Tranne l’invito della sua cittadina di origine, Salas, che vuole nominarlo cittadino illustre. Chiuderà i ponti con il resto del mondo per rituffarsi nell’ombra e nei chiaroscuri del proprio passato, che coincidono con l’ombra e i chiaroscuri del passato argentino.

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L’arrivo all’aeroporto preannuncia il grottesco che caratterizzerà l’intero soggiorno dello scrittore nella cittadina. Grottesco che si conferma durante il tragitto dall’aeroporto a Salas. Quella di Salas è una comunità apparentemente coesa, ma ha dentro qualcosa di profondamente spezzato, a tal punto da renderla in realtà alienata, come presto diventerà evidente per Daniel. C’è frustrazione e perfino odio, grettezza umana ai limiti del preistorico, ma praticamente sempre inseparabile dal risibile. Le macchiette umane sono molte e molte sono le situazioni imbarazzanti, assurde, surreali. Tutte però credibili, realistiche.

La follia, che all’inizio si percepisce latente, in agguato, cresce sempre di più. Sullo sfondo, s’intravedono anche bei caratteri umani, autentici, come diversi ambienti cittadini periferici, dove graziose casette ben tenute si alternano ad altre degradate. Questa alternanza rivela un occhio documentaristico degli autori, sensibili e attenti a costruire, anche nei dettagli, un ritratto non schematico, non manicheo. Del resto Cohn e Duprat vengono dal cinema sperimentale e dalle videoinstallazioni, con un successivo passaggio per la tv, dove hanno continuato a sperimentare, prima di tornare di nuovo al cinema, compreso quello documentario.

Un triste mondo postmoderno
Grazie a tutte queste esperienze sono in grado di combinare kitsch slavato e povero, simulacri della gravità, grandiosità e autenticità del passato e sono in grado anche di gestire le facilità della tv più brutta, evitandole o usandole, come nella sequenza della tv locale. Con tutti questi strumenti compongono un ritratto tragicomico di un mondo postmoderno triste e modesto, ritratto di un paese insieme apaticamente e rabbiosamente rinchiuso, ripiegato, nella sua frustrazione e nel suo provincialismo, nei fantasmi ossessivi mai ben sopiti degli anni della dittatura o del peronismo (nell’ufficio del sindaco troneggiano le gigantografie di Evita e Juan Domingo Perón), incapace di slanciarsi in maniera propositiva e innovativa sul futuro guardando con curiosità sul resto del mondo.

È un ritratto parziale, perché da bravi artisti Cohn e Duprat isolano alcuni elementi per meglio metterli risalto. Così Mantovani rappresenta insieme il grande scrittore argentino (Borges che non ha mai avuto il Nobel, come detto nel film, frustrazione dell’orgoglio di un’intera nazione), il grande scrittore sudamericano (da Miguel Ángel Asturias a Mario Vargas Llosa), ma più in generale una tipologia universale d’intellettuale/artista. Impressionante poi la capacità di Martínez di restituire in maniera credibile le tante sfaccettature dello scrittore. Anzi, oseremmo dire, di uno scrittore tout-court.

È un ritratto umano, quello proposto dalla coppia di registi, che cerca però la semplicità nella maniera di proporsi, di parlare, rispetto alla pomposità. Non manca nemmeno di comportarsi con attenzione e delicatezza, come per esempio verso il giovane scrittore in erba addetto alla reception dell’albergo, e, seppur con qualche incertezza, verso l’amore abbandonato di gioventù, due personaggi genuini e umani, fuori dalle macchiette e caricature. Certo a tratti si lascia andare agli eccessi di rigore etico o presunto tale, e anche a qualche momento di basso istinto. Ma spesso ci ripensa e fa marcia indietro, come alla richiesta d’aiuto di un padre per comprare la sedia a rotelle al figlio disabile. In verità, Mantovani è spesso sul crinale, oscillante tra il ruolo del grande scrittore e quello della semplicità morigerata, imposta da una realtà, semplice, prosaica: in una delle scene iniziali, quando è bloccato con un autista dall’auto in panne, propone di usare pagine di un suo libro per accendere un fuoco.

L’eterna giornata della marmotta
Mantovani è sempre sul crinale perché endemicamente ambivalente, ma l’intero film è connotato dall’ambivalenza. Intorno al fuoco racconta la storia di due gemelli, uno con la barba e uno senza: quello senza ucciderà quello con la barba, ma poi la sua sorte sarà ugualmente terribile. La morte, la sua gravità e verità, sembrano essere dunque le uniche cose capaci di rompere la palude della mediocrità, della macchietta, del simulacro? È l’unico modo di rompere quel mondo paludoso da Ricomincio da capo, piatto e ripetitivo, da eterna giornata della marmotta, come accadeva nel film di Harold Ramis con Bill Murray, oppure siamo condannati alla circolarità? Ricomincio da capo fu citato all’epoca della sua uscita come esempio di penetrazione di certi concetti del cinema d’avanguardia in quello commerciale.

Si ha l’impressione di una prossimità con il cinema di David Lynch, senza però scimmiottarlo

A un certo momento di Il cittadino illustre alcuni dei caratteri umani più bizzarri sono fotografati immobili, in maniera insieme documentaria ed estatica, prossima a certa produzione fotografica artistica e concettuale. E più si avanza in questa alternanza di luce diurna piatta e notte oscura, e più si ha l’impressione di una prossimità con il cinema di David Lynch, senza però scimmiottarlo: si pensa a Cuore selvaggio, a Twin Peaks, ma anche al poetico e profondo Una storia vera. In quel film il vecchio Alvin Straight, diritto come una linea retta, incontra sulla sua strada personaggi che hanno un potenziale del cinema più consueto di Lynch, quindi surreale, paradossale, inquieto. Il film di Cohn e Duprat fa però pensare a un Lynch scarnificato, da arte povera. E i personaggi incontrati da Daniel Mantovani in questo patetico microcosmo sembrano i personaggi inquietanti di un mondo che rappresenta, trasversalmente e metaforicamente, i paesi ricchi e industrializzati. Come se i nodi fossero arrivati al pettine ovunque, in un impazzimento globalizzato.

E arriviamo così all’ultima bambola russa dei “grandi temi universali” citati all’inizio del film. Mantovani rappresenta ormai un altro mondo, è un alieno: ma il mondo da cui proviene e quello rimasto alla preistoria giungono al punto limite: si raggiunge in maniera quasi incomprensibile la soglia dell’odio puro. Si assiste a qualcosa che fa pensare ai conflitti tra etnie diverse o di parti di società che hanno assimilato cambiamenti culturali opposti a quelle etnie o parti rimaste ancorate a visioni molto più tradizionali.

Ma questo alieno, come già nella sequenza iniziale della cerimonia dei Nobel, lo troveremo nella sequenza finale. Sembra però un altro tipo di alieno, molto più mostruoso, corrispondente in pieno allo stereotipo dello scrittore narcisista e consapevolmente egocentrico della società postmoderna: il vero e il falso, il vissuto e il romanzato si annullano (si deve ascoltare con attenzione l’ultima cosa detta da Mantovani al pubblico) lasciando il campo all’inquietudine: poiché non sembra restare altro che il sorriso sardonico e narcisista dello scrittore, forse metafora di un’epoca nuova che sorge.

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