21 maggio 2018 11:14

Bella soddisfazione a Cannes per il cinema italiano, ma i titoli premiati erano più o meno situati ai posti sbagliati del palmarès. Molti i titoli dimenticati, spesso di più alta qualità, a compimento di un Concorso certo non esente da difetti ma comunque vario, che esprime la grande diversità del cinema contemporaneo.

Un esempio concreto sta proprio nei due ottimi titoli italiani, insieme opposti e complementari. Dogman di Matteo Garrone dice moltissimo sul paese contemporaneo. Dice cose gravi creando magie profonde ma partendo da quanto c’è di più brutto nella cronaca. Rovescia il tutto con un’umanità di fondo nel rappresentare l’inumanità ed esprime una profondità sorprendente di riflessione sull’Italia. Tutto questo non avrebbe mai funzionato senza Marcello Fonte, burattino, Pulcinella pasoliniano dell’Italia povera di un tempo e insieme disadattato del mondo dei reality show di oggi. In questo senso il premio a Fonte, sorpresa attoriale del cinema italiano, va a un artista fuori degli schemi, attivista e occupante, dunque a qualcuno che proviene dall’antisistema culturale e politico. Quello vero, costante e senza pose narcisistiche.

Il film di Alice Rohrwacher, lieve e profondo, realistico e poetico, dice la stessa cosa con dolcezza e incanto. È il rovescio speculare del film di Garrone, dove la dolcezza è assente. Per questa ragione riteniamo molto più interessanti e originali i film italiani tra quelli premiati, suscettibili di meritare la Palma d’oro più del vincitore. Inoltre il premio per la sceneggiatura a Lazzaro felice fa sorridere, perché il film di Rohrwacher è talmente libero che svicola anche dalla pur buona sceneggiatura.

Un film coraggioso
Però la Palma d’oro a Shoplifters di Hirokazu Kore-eda forse permetterà a un pubblico più vasto di conoscere finalmente la delicata e ispirata cinematografia del regista giapponese incentrata sull’indagine delle relazioni umane, in particolare familiari, che la Tucker da tempo sta meritoriamente cercando d’imporre in Italia. Kore-eda non è un maestro ma nemmeno lo pretende, il suo cinema è l’opposto della pretenziosità.

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Shoplifters è un film profondo, con una prima parte più intensa e una seconda parte con alcuni eccessi di lentezze e ripetizioni. Non è particolarmente lento, semplicemente non mantiene sempre la tensione interna necessaria. Nell’insieme è comunque un bel film con una parte finale, geniale quanto agghiacciante, sulla solitudine alla quale pare inevitabilmente confinato chi è più marginale in Giappone. Nonostante i rilievi si tratta di un film coraggioso che mette sotto accusa la politica sociale del governo giapponese, provocando, a quanto pare, un silenzio imbarazzato a Tokyo. Kore-eda, in realtà, meritava la Palma da tempo.

Il film dell’altro giapponese in concorso, Netemo sametemo di Ryusuke Hamaguchi, che sembra condividere con Kore-eda la capacità di raccontare drammi duri in una quiete apparente (straordinaria la scena dove irrompe il terremoto), lo abbiamo però preferito per la più misurata ed efficace capacità di raccontare.

Ottimo invece il secondo premio (il grand prix) a BlacKkKlansman, di cui abbiamo parlato con entusiasmo, che rivela uno Spike Lee in forma. L’energia positiva del film nasconde una profondità, per i rimandi storici ma non solo, maggiore di quanto sembri. Cold war del polacco Pawel Pawlikowski (premio per la miglior regia, già noto in Italia per Ida) è un film scolastico con un bianco e nero di maniera che spesso suona falso (in particolare nella parte francese) e un po’ stucchevole nell’uso delle musiche. E non basta una scena finale di vera poesia per salvare un film artificioso e piuttosto ruffiano. L’iraniano Se rokh (Tre volti) di Jafar Panahi (confinato nel suo paese, la figlia ha ritirato il premio per lui), ex-aequo con Lazzaro felice, è film tanto di regia che di sceneggiatura. Anche se non era il film più bello del concorso meritava la Palma più del film di Kore-eda.

I lungometraggi più forti e originali, a parte Le livre d’image di Godard, i titoli italiani e Se rokh, non sono stati premiati. En guerre di Stephane Brizé, Ash is purest white del maestro cinese Jia Zhang-ke, Burning del sudcoreano Lee Chang-Dong e soprattutto il russo Leto di Kirill Serebrennikov (che avrebbe meritato la Palma secondo molti critici di paesi diversi), sono rimasti fuori, tutte opere molto meno convenzionali e rassicuranti della maggioranza dei film premiati.

Cinismo e artificio
Un discorso a parte merita Capharnaüm della libanese Nadine Labaki (premio della giuria, il film uscirà in Italia per Lucky Red) privo di vera finezza, privo di una reale visione umana. Accumula con ridondanza un’infinità di questioni in maniera artificiosa come l’immigrazione africana, l’indifferenza della classe borghese, la compravendita degli esseri umani, l’infanzia abbandonata, ambientando il tutto nella moderna Beirut: troppi luoghi comuni e troppa carne al fuoco con il risultato di nessuna emozione profonda. L’asciuttezza del Rossellini di Germania anno zero o di Abbas Kiarostami sono lontani anni luce da questo polpettone. Non basta uno straordinario volto di bambino dalla notevole capacità interpretativa (che avrebbe dato ancora di più con una grande regia). Inoltre ci si chiede se tornerà alla sua condizione di profugo siriano, perché il ricordo di The millionaire in cui i bambini indiani furono sfruttati e abbandonati, non si è ancora spento. Il neonato africano che in Capharnaüm viene fatto piangere continuamente rafforza la sensazione di cinismo oltre che di artificio e speriamo che un chiarimento dalla produzione o dalla regista possa sgomberare il campo da questi interrogativi, al di là di ogni valutazione critica.

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Giurie e braccio di ferro
Forse sarebbe opportuno che a Cannes, come del resto a Venezia, si tornasse a far presiedere le giurie agli autori dei film invece che ad attori o attrici, riservandogli solo di tanto in tanto la presidenza. Tranne eccezioni, il pubblico non si sposta ai festival per i presidenti delle giurie. E forse troveremmo premiati film più innovativi e coraggiosi se a presiedere i festival trovassimo Agnès Varda e James Gray, Xavier Dolan o Wes Anderson. Tanto più che Cannes, come tutti i grandi festival, presenta il cinema d’autore, il cinema come arte, e solo occasionalmente anche come spettacolo.

Gilliam riesce in pieno a far tornare l’utopia, a ravvivare l’autenticità del sogno dell’infanzia e del sogno dell’artista

Sarà necessario un discorso articolato, ma su Netflix ha ragione Cannes. Il festival del cinema più importante del mondo, con il suo enorme Marché du film (e dell’audiovisivo) parte da una posizione di forza per contrattare. Ovviamente, le piattaforme come Netflix e Amazon contrattaccano e pare non abbiano comprato nulla al festival. Al tempo stesso al Marché gli accrediti sarebbero aumentati del 3 per cento rispetto al 2017. Inoltre, il rifiuto del festival di ospitare produzioni di Netflix (quasi sempre brutte o mediocri quando non realizzate da grandi autori) avrebbe preoccupato i vertici della società che ha bisogno del festival, che ha un’influenza decisiva sull’importante mercato francofono. Mentre Cannes, con la maggioranza delle produzioni Netflix ci fa ben poco.

Il braccio di ferro è insomma appena cominciato e i francesi sono abituati da tempo a queste guerre con gli americani. Benissimo ha poi fatto il festival a cambiare il calendario delle proiezioni stampa, anche se andrebbe trovata una soluzione per i colleghi dei quotidiani che arrivano con troppo ritardo ai loro lettori. Ma basta con twitter e compagnia. Non è solo Trump che deve imparare a usarlo. Anche i giornalisti, anche i critici, nel loro piccolo, devono tornare a proporre giudizi ponderati.

La rivincita dei mulini a vento
Infine, qualche parola su un magnifico ufo dell’industria cinematografica, l’opera di chiusura del festival. The man who killed Don Quixote di Terry Gilliam (fuori concorso). Sono circa trent’anni che Gilliam ci lavora, c’era stato già un primo tentativo di riprese nel 2000 con Jean Rochefort, poi abbandonato. Eppure, andando contro tutti i mulini a vento, quando oramai l’intera l’industria del cinema dava per morto questo film-utopia, Gilliam è riuscito nella grande impresa della sua vita. Ultimo impedimento, uno dei produttori, Paulo Branco, ha cercato di bloccarne la proiezione a Cannes. Il festival ha difeso a spada tratta Terry Gilliam e la giustizia francese gli ha dato ragione. Quanto al giudizio sul film, alcuni critici lo hanno attaccato duramente, altri lo hanno molto apprezzato. In effetti ci sono momenti deboli, che mancano d’intensità.

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Ma la verità è che nell’insieme il film è straordinario e metaforizza, nella sua oscillazione continua tra realtà e sogno, tra cinema che si ostina a reinterpretare il mito e cinema che non riesce a farlo perché mediocre surrogato, la crescente difficoltà delle narrazioni di oggi a ritrovare l’epos e l’afflato delle grande finzioni del passato, della grande epica. Il film, spesso piuttosto divertente, a tratti annoia un po’ perché in fondo mette in scena volutamente delle parodie di parodie, o dell’autoparodia.

Metafora telefonata di questo è il vero protagonista, il regista pubblicitario interpretato da Adam Driver, vero cavaliere del film. Driver porta il film sulle proprie spalle dall’inizio alla fine. Inizia egocentrico, vacuo e insopportabile e finisce nobile, coraggioso e degno. Soprattutto finisce come un grande personaggio del passato, come un personaggio di una volta. Film di mutazioni continue, il passato e il presente, il sogno e la realtà, la grande finzione e il suo surrogato, alla lunga convivono incredibilmente bene e sorgono sorprese continue che progressivamente creano l’incanto. Bisognerà tornarci sopra al momento della sua uscita, perché il film è immancabile. Gilliam riesce in pieno a far tornare l’utopia, a ravvivare l’autenticità del sogno dell’infanzia e del sogno dell’artista contro i mulini a vento dell’industria omologante. Mai chiusura di festival fu più emblematica.

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