18 maggio 2018 17:05

Dogman di Matteo Garrone, En guerre di Stephane Brizé, Burning di Lee Chang-dong, sono tre film profondi sulle guerre o le ossessioni delle società contemporanee. E nel caso del film sudcoreano con un’attenzione fine verso le donne. Il concorso di Cannes continua a essere in gran parte eccellente.

Si possono cogliere vari rimandi ai precedenti film di Garrone, che sembra chiudere con Dogman una riflessione sull’Italia contemporanea. Girato a Castel Volturno, potremmo anche essere a Roma o giù di lì, il regista infatti ricerca una certa indefinitezza e sospensione dei luoghi.

Ovviamente si pensa a L’imbalsamatore, là un tassidermista, un esperto nella toeletta per cani in Dogman. Dagli umani agli animali, dai corpi morti ai corpi vivi, due opposizioni racchiudono una sola ossessione. Quella per il desiderio, quasi malsano, per il bello e il corpo perfetto, pulito, quasi lezioso, vivo o morto. Ossessione per il desiderio come in Primo amore, e la scelta di partire da una storia che appartiene alla cronaca, elemento comune anche a L’imbalsamatore. Storie che sono insieme paradigmi e metafore dell’Italia.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

In fondo è questo che Garrone ha sempre più o meno raccontato nei suoi film sull’Italia contemporanea. Un paese falsificato e snaturato, imbalsamato, rinchiuso in una prigione, ossessionato dal desiderio continuo di un qualcos’altro indefinito, che si risolve in un’apparenza più o meno di paccottiglia e nell’infelicità profonda e inesorabile per ciascuno. Un cinema claustrofobico magari nascosto dietro l’apparente leggerezza della luce mediterranea (quando la inserisce). Il tutto spesso sorretto con elementi di astrazione narrativa e formale, si tratti di Reality o Gomorra.

Un exploit inserire astrazione (in particolare per le riprese delle labirintiche architetture) considerando, in quest’ultimo titolo, l’ambientazione precisa, Scampia. Un’ambientazione dove la città e la sua architettura assumono una dimensione sociale oppressiva e deterministica, con i due ragazzi di Gomorra che mentre camminano seminudi nelle zone abbandonate in un’estate che ha qualcosa della malinconia dell’inverno, sono prossimi alla terra di nessuno di Dogman. Tutto sembra chiudersi e forse il regista, già in parte in Il racconto dei racconti, comunica il bisogno di uscire da questa palude italiana moderna, per tornare alle origini, alle matrici della genuinità, come pare indicare il prossimo progetto di Pinocchio.

Un’urgenza ben ragionata
Anche gli operai della fabbrica francese filmati da Stéphane Brizé in En guerre sono come inseriti in un luogo ristretto e claustrofobico, per quanto reso vivace da gran parte dei suoi componenti, oppressi da un ambiente sociale deterministico che pare senza uscita. Il film è semplicemente eccezionale e non somiglia a nulla di quanto visto finora al cinema su questo tema, a prescindere dalla nazionalità. Una fabbrica non più competitiva, malgrado i sacrifici richiesti ai dipendenti negli ultimi anni, sta per passare di mano a un proprietario tedesco che la vuole delocalizzare nell’Europa dell’est per trovare mano d’opera a basso costo e licenziare i dipendenti francesi.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Si poteva temere un docufilm, come avviene spesso nel cinema italiano, tanto più che En guerre contiene vari spezzoni di telegiornali. Ecco, invece, un film naturale, diretto, impetuoso e sottile insieme, come espressione di un’urgenza, ma ben ragionata. È un film sulla collettività, un microcosmo estensibile a tutta la Francia, all’Italia e al resto del mondo. Straordinaria, unica, la capacità del regista di essere preciso nel ricostruire, nel documentare e analizzare i meccanismi economici della questione, e nel mescolarli a quelli psicologici, rimanendo sempre appassionante, diretto, vero.

È un film comunitario, anche se emerge, spicca, in questa vera e propria guerra che pare senza uscita, un singolo, straordinario attore che sa esprimere la sua personalità pur mettendosi alla pari con gli altri: Vincent Lindon, quasi un Jean Gabin moderno. Un carattere e al tempo stesso una presenza semplice, umana, naturale. Sarà essenziale vedere il film in lingua originale, al momento della sua probabile uscita in Italia, vista la vivacità e verità espressa nella recitazione. Il cinema vicino al Fronte popolare, di cui Gabin era un emblema, sapeva essere popolare e insieme poetico, vero. Sapeva anche come inserire il pessimismo della realtà, pur rimanendo cinema per tutti. Proprio come Brizé in En guerre che non lascia scampo nel suo finale pur presentando in qualche modo una quasi impossibile speranza.

Una psicosi sociale
Un film che tratta di prigione sociale, di rapporti umani ossessivi e falsificati, di follia, ma facendolo capire poco a poco e lasciando incantati, è Burning, del regista sudcoreano Lee Chang-dong. Ex ministro della cultura, romanziere, poeta, regista, è autore di molti bei film, come Oasis, presentato in concorso a Venezia nel 2002 (e che fu commercializzato in dvd proprio da Internazionale), o Secret sunshine (presentato a Cannes nel 2007 dove vinse il premio per la miglior interpretazione femminile) coraggioso film sulla chiesa cristianoevangelica sudcoreana rappresentata come una vera e propria setta manipolatrice e mortificatrice di tante donne.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Le donne, la loro condizione ma anche la loro verità poetica, sono spesso al centro dei film del regista. Burning, liberamente adattato da una novella di Murakami, rivela quasi una psicosi sociale attraverso due personaggi emblematici. Lo scontro, la rivalità, nasce tra due ragazzi di ceto sociale opposto – ne sono metafora perfetta la camionetta scassata del ragazzo di origini modeste e la Porsche del ragazzo agiato – che si muovono attorno alla figura di una ragazza semplice e sensuale, eterea e misteriosa, in un continuo crescendo di sfida autodistruttiva, autodivorante, al limite, e per altri aspetti, di attrazione latente e non confessata dell’uno per l’altro, che rimane al tempo stesso sommessa e mai sopra le righe.

Lee Chang-dong sembra manifestare qualche simpatia per il ragazzo povero, più delicato con la ragazza ma altrettanto ossessionato. Il regista, però, è un poeta che incanta. Avvolge tutto nella leggerezza, nell’aria tersa, nella luce dei paesaggi naturali estivi, nei continui movimenti di camera fluidi, eleganti, in una fotografia aerea, limpida, senza mai cadere nel patinato da cartolina. E il ballo a torso nudo della ragazza nel tramonto estivo in mezzo alla natura è la sequenza centrale da un punto di vista poetico, quella che riassume la forma del film nell’importanza della donna, che non sembra esistere e non può che dissolversi nel vento, in quanto soggetto realmente autonomo in questo mondo dominato da visioni e opposizioni maschili.

Leggi anche:

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it