10 maggio 2018 15:39

Nell’era del #metoo, la decisione di Cannes di chiudere la cerimonia di apertura del 71° Festival cinematografico con Martin Scorsese e Cate Blanchett insieme sul palco del Grand Théatre Lumière è sicuramente stata calcolata per regalare una bella gag visiva. Blanchett, quest’anno presidente della giuria, sembrava una bionda amazzone accanto al regista newyorchese. Quando l’ha abbracciato, il pubblico in sala si è concesso una risata affettuosa, con il regista di Taxi driver diventato, di colpo, una piccola mascotte sotto l’ascella di una donna forte.

Poi si torna alla realtà: ventuno film in concorso, di cui solo tre firmati da donne (Alice Rohrwacher, Eva Husson e Nadine Labaki). Quest’anno, il festival ha reagito alle continue critiche (che valgono anche per Venezia) sulla scarsa rappresentanza femminile scegliendo una giuria con una maggioranza di donne. Ed è stata proprio la presidente, in conferenza stampa, a dare una giustificazione “di merito”, la stessa ripetuta con astio crescente negli ultimi anni anche dal direttore artistico del festival, Thierry Frémaux. Davanti a continue domande mediatiche sul divario enorme fra registi maschi e femmine nella selezione ufficiale del festival più prestigioso del mondo, Blanchett in conferenza stampa ha detto: “Ci sono parecchie donne in concorso. Stanno lì non per una questione di genere, ma per la qualità del loro lavoro”.

Todos lo saben è un film di promesse non mantenute

Apertura in sordina, intanto, per il primo film (maschio) in concorso, del regista iraniano Asghar Farhadi. Todos lo saben. È un melodramma che arruola due astri del cinema in lingua spagnola e non solo, Penélope Cruz e Javier Bardem, in una storia del sequestro di una ragazza adolescente durante una festa di matrimonio. Gli attori sono bravi – Cruz lacerante come madre alle prese con la scomparsa della figlia che condivide il suo stesso temperamento passionale – ma è un film di promesse non mantenute.

La sinossi che leggerete quando uscirà il film sarà una cosa tipo: “Vecchi rancori vengono a galla quando una famiglia apparentemente felice viene scossa da una tragedia”. Ma in realtà i rancori rimangono sommersi in acque rese torbide da una sceneggiatura incompiuta, che vorrebbe operare un incontro tra il melodramma in stile Douglas Sirk e il thriller hitchcockiano, ma manca entrambi i bersagli. I migliori film di Farhadi – About Elly, Una separazione, The salesman – sono tutti ambientati nella sua terra d’origine, l’Iran. Quando fa il turista cinematografico, come qui o nel melò francese Il passato, la sua mancanza di esperienza locale mette in risalto l’artificialità della trama.

L’esordiente egiziano Abu Bakr Shawky punta il dito contro l’emarginazione dei disabili nel suo paese con il toccante Yomeddine, un road-movie comico-sentimentale che segue un lebbroso alla ricerca del padre che l’ha lasciato in una comunità tanti anni prima.

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Ma il più bello dei tre film passati in concorso finora è sicuramente Leto (L’estate) del regista russo Kirill Serebrennikov.

Girato quasi tutto in bianco e nero, il film ritrae la scena rock underground di San Pietroburgo, allora Leningrado, nell’estate del 1981, isolando un triangolo di personaggi nella fauna variegata di questa specie di perestrojka musicale ante litteram: il vecchio rocker Mike Naumenko, sua moglie Natalia, e Viktor Tsoi, il cantautore esordiente che amava entrambi in modi diversi e che sarebbe diventato una leggenda in patria dopo la sua morte nel 1990 a soli 28 anni.

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Leto è un film romantico, perfino un po’ ingenuo, che evoca anche attraverso delle scelte formali una stagione di strana libertà: girato in modo fluido, con lunghe sequenze realizzate con la camera a spalla, pesca nell’immaginario della nouvelle vague (appropriato per l’epoca perché, nella Russia di Brèžnev, tutte le onde creative occidentali arrivavano con anni di ritardo), inserisce spezzoni di quelli che sembrano dei super 8, srotola una serie di sequenze musicali con inserti animati molto punk. Come quando i passeggeri di un filobus cantano a turno The passenger di Iggy Pop.

In questo mondo clandestino, dove però la funzionaria del partito incaricata di censurare le parole delle canzoni si rivela un’alleata di questi giovani rockettari sovietici, la musica di David Bowie, T Rex, i Sex Pistols e i Talking Heads, procurata in qualche modo su vinile o più spesso su nastri di ogni tipo, si pone non come scelta estetica di un nuovo edonismo giovanile, ma come risposta urgente al grigiore del sistema sovietico. Riuniti in uno dei tanti appartamenti di amici e sostenitori che, insieme a un “rock club” appena tollerato dal partito, formano il loro mondo, Mike, Viktor e gli altri lanciano scommesse su quale sarà la prima frase pronunciata dal presentatore del telegiornale: “Centomila tonnellate”, o “Brèžnev”.

Il grande paradosso di questo film inebriante e nostalgico è il confronto, mai segnalato esplicitamente, ma sempre presente, tra questa piccola finestra di libertà sotto il regime sovietico, e le chiusure della Russia capitalista di Putin. Il regista, Serebrennikov, ha finito di montare il film agli arresti domiciliari in seguito a una condanna per corruzione arrivata nell’agosto del 2017. È una sentenza contestata da quelli che vedono nel verdetto un chiaro tentativo di punire un regista scomodo.

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