10 ottobre 2019 17:12

Ad astra, luogo in cui viaggio nello spazio, viaggio onirico e viaggio nell’inconscio si equivalgono. Ma è un viaggio nell’inconscio filtrato dalla memoria, o meglio dai suoi lembi, che a loro volta equivalgono a lembi dello spazio, di meteorite o di comete, e viceversa. Forse avrebbe potuto essere sottotitolato “Laddove non arriva il Sole”. Perché qui si tratta di ritrovarlo il Sole. O meglio la vita, che senza il Sole, motore di tutto nel nostro sistema chiamato non a caso solare, sarebbe impossibile.

Il film di James Gray è il racconto dolente di un mondo vecchio, quasi stanco, ma un po’ sonnambulo. Non è una stanchezza triste, forse leggermente mesta, nondimeno avvolta in una grande dolcezza onirica, in una malinconia altrettanto dolce, quasi proustiana, fatta cioè di reminiscenze, ma che si tinge sistematicamente di oscurità. Forse di una fine di tutto e del tutto. O forse di una possibile e inaspettata rinascita, di rovesciamento della ciclicità storica, della predestinazione, se guardiamo al finale. L’oscurità vista dallo spazio è però raccontata sotto il filtro dell’intimità. E la possibile rinascita, o ritorno alla nuova vita, si fa sempre grazie all’intimità. Il tornare alle origini e specularmente a un’idea di futuro, passa per la capacità di ritornare ai rapporti umani di base. A saperli (ri)sentire, a essere consci del loro infinito valore. Infinito e finito, una delle dialettiche che dominano il film.

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Questa impostazione sul registro dell’intimità la troviamo in ogni contesto della narrazione. Come per esempio la riunione con i capi militari dove viene chiesto al maggiore Roy McBride (Brad Pitt), un astronauta di alto livello, d’indagare su misteriose ondate di energia provenienti da Nettuno che inondano l’intero sistema solare e possono mettere a rischio la vita sulla Terra. Si ritiene possano essere connesse al Progetto Lima, che venne guidato dal padre di Roy, Clifford McBride (Tommy Lee Jones), scomparso 16 anni prima, proprio vicino a Nettuno, durante una missione alla ricerca di forme di vita intelligenti.

La sala del comando militare è quasi oscura, i militari sono pochi, il dialogo, piuttosto informale, è quasi ovattato. In Ad astra vediamo poca folla, se si tiene conto del genere di film, e comunque quella che c’è, come sulla base lunare, sembra lontana, inesistente. Tutto è visto fuori dal sé, per meglio rientrarci e magari ritrovarlo. Il narrare del protagonista esprime un sentimento di estraneità avvolta in una sorta di dolcezza un po’ sonnambula, come il lasciarsi andare di chi si lascia morire lentamente, ma con una qualche serenità, o come il lasciarsi cullare dall’oppio. Narrato per mezzo del monologo interiore di McBride, il film sembra immerso in una dimensione narcolettica, che può provocare nello spettatore un sentimento straniante, perfetta specularità raggiunta dal film tra il dentro e il fuori. Perché quello di Ad astra è proprio un viaggio “dentro”. Dentro i meandri più neri del cosmo, dentro i labirinti della psiche, quindi estraneo al reale. O a quello che pare esserlo.

In questo viaggio quasi claustrofobico nel lato oscuro – di cui la metafora principe è certamente rappresentata dalla faccia nascosta della luna – è continua la presenza d’immagini in gran parte riconducibili a un unico leit-motiv visivo: quello del cunicolo, del corridoio stretto, magari colorato di rosso o arancio psichedelico, che equivalgono ad altrettante immagini simboliche di un viaggio labirintico negli inferi o nel limbo dell’inconscio. Gray nel rielaborare esplicitamente il Cuore di tenebra di Conrad – romanzo per antonomasia di esplorazione dell’oscurità umana attraverso l’esplorazione del mondo fisico – non compie un nuovo adattamento del romanzo in chiave cosmica. Piuttosto, costruisce una rievocazione della memoria mediante una narrazione rapsodica e immagini oniriche che sembrano di repertorio ma non lo sono, sembrano antiche e moderne, già viste e insieme nuove, espresse da una forma fotografica pastellizzata, una psichedelia fantascientifica esteticamente sgranata e porosa, soprattutto se confrontata a 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, opera maestra che ha inaugurato l’estetica psichedelica al cinema.

Ne fuoriesce una bolla-sogno, un film di poesia su qualcosa che forse si è irrimediabilmente perso lasciandoci senza identità, senza (strumenti di) conoscenza. Una bolla-sogno che ci fa fluttuare in una dimensione sospesa nel vuoto e nel nero dello spazio, che sono qui una cosa sola. E privata dei suoni come in certi incubi in cui precipitiamo verso la morte osservandoci da fuori.

Ad astra è all’opposto di tanto cinema contemporaneo, quello più ludico. Al contempo è la continuazione, rovesciata quasi come in uno specchio, di alcuni degli esempi migliori del cinema di fantascienza degli ultimi anni e soprattutto del film-capostipite della fantascienza cinematografica d’autore, 2001 Odissea nello spazio. In questa Odissea il senso del viaggio (inteso come viaggio del progredire umano) sembra smarrito, come rivelano lo sguardo e le riflessioni sempre più attonite di McBride. Non si va più verso il feto di 2001. Il bambino non cresce più e anzi invecchia. E Brad Pitt trasmette bene questo senso di grigiore e vecchiaia anzitempo, anche grazie ad una barbetta mai rasata, così come è sapientemente ringiovanito in C’era una volta a…Hollywood di Quentin Tarantino.

Tutto cambia
Una scena chiave con il cordone ombelicale sotto forma metaforica unisce il leit-motiv del corridoio stretto e scuro con il tema della rinascita e della ciclicità. Nel ritrovare la meraviglia del primo sguardo, dello sguardo primigenio, insieme incantato e agghiacciato, in qualche modo Ad astra si ricollega a First man di Damien Chazelle, e più esattamente alla sua ultima e straordinaria mezz’oraincentrata sull’allunaggio.

La meraviglia dello sguardo contrapposto a un mondo di un’immensa noia che sfocia nel vuoto, a un mondo maschile tutto programmato e prevedibile come una camicia di forza, strutturato sull’ossessività di potenza e anche sull’ossessività fine a se stessa. Quell’ossessività che fa dire a Roy McBride nel suo monologo, al momento della sparatoria sulla Luna, “stiamo ancora al conflitto per le risorse”. Tutto cambia, tranne questo. È il colonialismo-imperialista che torna indietro, facendo impazzire di ferocia delle scimmiette-cavia. Da quel lembo nascosto nello spazio torna indietro la violenza nascosta nel sogno americano.

Uno sguardo ritrovato recidendo un cordone ombelicale e rompendo la ciclicità all’apparenza ineluttabile della storia umana. Il piano intimo e il piano universale – cosmico – si saldano. Metafisico, mistico, laico Ad astra? Certamente abbiamo di fronte un grande film umanista. Ma l’umanità ritrovata passa per l’attraversamento delle tenebre, per stare al titolo che rimanda al motto latino “Per aspera ad astra”: superando le difficoltà si arriva alle stelle. Perché è nel concreto della vita quotidiana e nel saper affrontare con eroismo le avversità qui, sulla Terra, che si raggiunge la vetta dell’uomo (ri)nato.

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