In questa 79ª edizione che festeggia il novantesimo anno di esistenza della Mostra di Venezia, se sono numerose quelle italiane (ma su queste ha scritto Piero Zardo) sono davvero tante le produzioni statunitensi in concorso tra cui diverse targate Netflix. Le quali sembrano fare sempre più cilecca quando non hanno dietro un regista di alto livello, come per esempio Noah Baumbach con il suo White noise di cui abbiamo dato conto nella prima cronaca, o di Jane Campion con Il potere del cane che l’anno scorso a Venezia vinse il Leone d’argento. È il caso di uno dei titoli più attesi del concorso, Blonde, biografia di Marilyn Monroe che si vorrebbe un po’ visionaria e onirica firmata da Andrew Dominik, un regista per la verità non pessimo – ci si ricorderà di L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, presentato proprio a Venezia nel 2007 – ma la cui filmografia non ha mai fiorito al grande cinema.

Adattando l’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates, Dominik ne riprende il concetto di immersione totale nella psiche dell’attrice mediante una messa a distanza e una struttura narrativa esplosa, frammentata all’eccesso, ma ne fuoriesce un’opera visivamente algida che, malgrado qualche bella sequenza onirica, non riesce ad ammaliare pur trattando di uno dei personaggi più magici, oltre che tragici, della storia di Hollywood: Norma Jean, in arte Marilyn Monroe, morta nel 1962 dopo aver raggiunto velocemente il massimo successo. È stata davvero un’attrice di cerniera, oltre che bravissima: un po’ pin-up, fu nondimeno l’ultima grande attrice e icona della modernità del cinema prima di quello della postmodernità.

Colta, intelligente, sensibile, nel suo diario chiedeva invano di essere ascoltata perché tante erano le cose che aveva da dire e per questa ragione ambiva a ruoli con personaggi intelligenti o sensibili rispetto a quelli che l’avevano portata alla celebrità. Lo ebbe proprio alla fine della sua vicenda umana, quando il grande John Huston la prese per un film metafisico ed esistenzialista come Gli spostati (1961) insieme a Clark Gable e Montgomery Clift, quest’ultimo non meno tormentato di lei, e sceneggiato dallo scrittore Arthur Miller, marito della Monroe.

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Dei tanti traumi vissuti dall’attrice fin dall’infanzia Blonde ne sceglie alcuni, tutti importanti, cercando di illustrare lo stato di sdoppiamento in cui viveva costantemente l’attrice (Norma e Marilyn) e la grande sofferenza che ne derivava perché dilaniata nel suo sé. Ma la simbologia e la costruzione filmica nell’insieme restano piuttosto superficiali e scolastiche. E il regista, per una bella sequenza onirica quanto claustrofobica di un incendio devastante lungo le strade californiane, ne banalizza dieci altre: immerge fin da subito la regina del glamour in una costante quanto piatta luce bianca che sembra voler già enunciare la sua esistenza fatta di vuoto, di un limbo tormentato, di una sospensione nell’infelicità in attesa della conquista della felicità vera, una chimera inseguita in modo permanente. Ma ne esce soltanto freddezza.

Blonde, che sarà su Netflix a partire dal 23 settembre, lascia l’impressione di una grande occasione mancata e di un titolo più da fuori concorso, comparto dove invece è stato inserito Dead for a dollar, l’ispirato e anticonformista western dell’ottantenne Walter Hill, come sempre trasversale ai generi e alle cinematografie, che senza pesantezze ideologiche dà alle donne e ai neri una vendetta che porta il sapore della giustizia. Arriverà nelle sale con Universal Pictures.

Altra produzione targata Netflix ma del tutto catastrofica è Athena, dalle elementari e un po’ ridicole simbologie prossime ai miti greci, firmata dal francese Romain Gravas alla cui sceneggiatura a tre ha collaborato anche il più celebrato Ladj Ly. Adrenalinico e ansiogeno fino all’estremo, esteticamente algido fino all’inumano intende essere fin dal primo minuto un’immersione senza un momento di respiro in una rivolta all’interno di una delle tante cité francesi dove sono rinchiusi i figli di immigrati di terza o anche quarta generazione, rivolta che si muta quasi subito in una guerra un po’ tribale e medievale.

I film come questo sono talmente piatti da esaurirsi nell’evidenza di quello che vogliono dire e che a proiezione conclusa si è già certi che non avremo mai voglia di rivedere: per riassaporare e per grattare cosa nell’immagine o negli interstizi della narrazione (intesa in senso lato, dalla sceneggiatura fino al montaggio)? Gravas sembra volerci comunicare di essere mosso da un’urgenza mentre è solo adolescenziale in senso negativo: politicamente immaturo e semplicistico sembra inneggiare con facilità alla guerra civile. Ha gli stessi difetti che ebbe a suo tempo L’odio di Mathieu Kassovitz (1995), che pure qualche pregio lo aveva, ma rivela molto più schematismo e veicola molta più bruttezza estetica che tuttavia potrebbe sedurre degli spettatori meno consapevoli tra il pubblico più giovane.

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Invece un film francese come Saint Omer della esordiente nera Alice Diop rimanda al mito greco di Medea con ben altra sfrontata finezza rivelandosi una delle grandi sorprese del festival, forse il titolo finora più bello e certamente il più inatteso. Sarà Minerva Pictures a portarlo nelle nostre sale e non escludiamo affatto, non solo per le voci che girano, che la giuria potrebbe assegnare al film un premio. È la storia, tratta da una vicenda accaduta realmente e di recente, del processo a una donna nera accusata dalla giustizia francese di aver ucciso la figlia di quattordici mesi – omicidio da lei ammesso e del quale non sa dare spiegazione – e della scrittrice nera Rama che assiste al processo rimanendone provata.

Un’opera inquietante e seducente, appassionante e profonda, misteriosa e costantemente sul crinale non solo tra razionalità-giustizia bianca e mondo irrazionale-ancestrale nero, ma tra una logica cartesiana come quella francese e una logica “altra”. Già Pasolini, che fece un adattamento cinematografico di Medea poi passato alla storia, diceva che i francesi denotano sotto molti aspetti ben più civiltà acquisita rispetto alle culture dei paesi poveri ma che in compenso hanno più difficoltà a capirli in profondità, perché intrisi di razionalità cartesiana.

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Nondimeno Saint Omer non è univoco e fa scorgere tutte le ombre interrogando lo spettatore fino alla fine – e anche dopo la fine – sull’ambiguità e complessità della realtà. Laurence Coly, come la si voglia considerare, è però un ufo assolutamente inclassificabile che sfida tutti i canoni proprio come questo magnifico film, che fa uso della questione della maternità come strumento di lettura dell’identità: un tema molto vasto, che ingloba molti altri sottotemi. Di cosa sono fatte le donne? La ricerca scientifica, e quindi ben reale, sulle cellule chimera che tutte le donne portano dentro di loro, con la quale la regista crea una connessione con il mito di Medea, fa intrinsecamente delle donne degli esseri mutanti unici e insieme sofferenti. È questo il film fratello del romanzo Blonde della Oates che il film di Dominik non sa reinventare. Dopo qualche riflessione, anche se resta qualche titolo da scoprire, Saint Omer è il nostro Leone d’oro.

The banshees of Inisherin è un altro gioiello scritto e diretto dal londinese di origini irlandesi Martin McDonagh dopo il magnifico Tre manifesti a Ebbing, Missouri che Walt Disney Italia dovrebbe portare in sala il 2 febbraio dell’anno prossimo con il titolo di Gli spiriti dell’isola, che forse svuota un po’ di forza espressiva ed evocativa il titolo come il film. Le banshee, infatti, nella tradizione irlandese sono delle sorte di streghe, ma delle streghe ieratiche, portatrici di un sapere, una “visione” davvero misteriosa che è una forma di conoscenza in certi casi anche rivoluzionaria e per questa ragione rispettata dal mondo un po’ risibile e ottuso qui rappresentato, quello di una comunità irlandese più o meno ottusa e capace di farsi la guerra per delle facezie incomprensibili che avrebbero forse ispirato Ionesco, padre del teatro dell’assurdo.

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Come in Tre manifesti a Ebbing, Missouri, McDonagh ambienta la sua narrazione in un luogo chiuso la cui comunità è mentalmente altrettanto chiusa, dove una donna è l’unico personaggio fuori sincrono, e miscela con vera maestria dramma e commedia rasentando il comico – si ride spesso – senza che questo nulla tolga alla gravità delle questioni rappresentate. Anche questo titolo ci pare avere ottime opportunità, in particolare per la qualità quasi letteraria della sceneggiatura di ottenere un premio, tanto più vero se si considera la presenza in giuria di uno scrittore come Kazuo Ishiguro.

Limpido, terso e leggero come una giornata di primavera. Immerso costantemente in una sorta di quiete dello spirito malgrado i molti sommovimenti familiari – come se fosse raccontato da chi ha raggiunto una totale pace interiore malgrado le traversie della vita – è l’intenso, fine e piacevolissimo Love life del giapponese Koji Fukada – che da oggi Teodora Film porta nelle sale italiane – certamente una delle due rivelazioni del concorso (e non solo) insieme a Saint Omer.

La gioventù negata, e per giunta nella famiglia stessa, peraltro ricorre in almeno tre film del concorso. Come nel film di Diop, dove la morte di una bambina domina l’intera narrazione pur essendo fuori campo, e in The son di Florian Zoller – altro titolo del concorso dalla regia e fotografia asettica e senz’anima malgrado una maggior finezza nella sceneggiatura – dove c’è forse una morte annunciata di un adolescente, mentre qui molto presto c’è l’inattesa e accidentale morte di un ragazzino, Keita. E in tutti e tre i film la narrazione verte su chi resta, ma in maniera diversissima lungo le tre opere.

Il film di Fukada in realtà è una girandola di negazioni dell’altro o dell’altra con rispettive presa di coscienza da parte di tutti, anche se in taluni casi forse solo parziali, ma con perdono conseguente: la presa di coscienza dell’ex marito della madre di Keita, sordomuto di origini sudcoreane, per il fatto di averli abbandonati e più avanti perché ha abbandonato anche figlio e madre coreana; da parte di lei per non aver capito che l’ex marito aveva bisogno di aiuto e ovviamente per via della sua disattenzione che ha provocato la morte del bimbo. E non finisce qui: lasciamo allo spettatore la scoperta di tutto il resto. Ma alla fine ne esce fuori un’originale quanto precisa fotografia dei meccanismi sociali e delle sue complesse ramificazioni colte però mediante il prisma famigliare. E di come il fatto che la solitudine nella società giapponese sia una condizione umana diffusa dipende forse dal suo cominciare in famiglia.

Tuttavia i continui stravolgimenti familiari sorgono lungo la narrazione senza essere esibiti, non vi è nessuna magniloquenza: i meccanismi drammaturgici sono quasi anestetizzati in questa quiete dolce e pervasiva che avvolge il quartiere specularmente al film e le cui panoramiche non a caso lo aprono e lo chiudono. Il regista ci parla della morte per meglio parlarci della vita, spinge al ritorno alla vita, a una resurrezione del desiderio e del senso della vita, di come questa malgrado tutto sia sempre e comunque non solo necessaria ma inevitabile. Love life, come enuncia il titolo, è in verità una straordinaria elegia alla vita fatta partendo dal quotidiano minimale, prosaico, che comunica allo spettatore amore, poesia e una forma di ottimismo senza retorica e melassa sentimentale. Un simile miracolo di equilibrismi è cosa davvero rara e pertanto la sua visione è da non mancare.

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