26 maggio 2023 15:00

Mentre il festival di Cannes sta per chiudersi, arrivano in sala due grandi film di Cannes 2022. Uno, Pacifiction, è un capolavoro firmato da uno dei registi più originali e radicali del cinema contemporaneo, lo spagnolo Albert Serra. Ma anche al film della francese esordiente Emmanuelle Nicot, L’amore secondo Dalva, riesce un miracolo: un film delicatissimo sulla pedofilia in famiglia osservata da un’inattesa angolazione. E rivelatore di una prodigiosa interprete nella ragazzina protagonista.

In Pacifiction troviamo un exploit interpretativo. Siamo nella Polinesia francese, nell’isola di Tahiti per la precisione, quell’isola ormai quasi mitica tanto amata e dipinta da Paul Gauguin che, con il tempo, ha finito per diventare paradossalmente uno stereotipo, un cliché, che alimenta, se si rimane in superficie come purtroppo spesso accade, la visione coloniale. Qui, De Roller (Benoît Magimel), alto commissario della repubblica, in quanto rappresentante dello stato viene presto messo al corrente dalla comunità, e in particolare dal leader indipendentista o autonomista da poco eletto, di voci inquietanti sulla ripresa dei test nucleari che non sono più effettuati dal 1995, quando il presidente Chirac li aveva riavviati tra la costernazione internazionale.

De Roller dichiara sinceramente di non saperne nulla e non dà alcun peso a queste voci, facendo giustamente presente gli alti costi che servirebbero per rimettere in funzione una macchina del genere. Gli interessano invece le inquietudini interne di cui queste voci incontrollate sembrano l’espressione, quasi più la proiezione nella realtà di un inconscio collettivo. Voci che forse proliferano anche per via di un’insoddisfazione di fondo generalizzata – soprattutto tra i giovani (anche perché “è presto fatto il giro di un’isola”) – e di un clima generale di paranoia complottista che contamina e pervade perfino un luogo lontano dal continente, che vive in una circolarità senza fine e senza uscita e che il film, in qualche modo, trasforma implicitamente nella sua metafora e insieme paradigma.

Un film intimista
Non si vede molta popolazione, più dirigenti politici ed amministrativi autoctoni che gente comune, a parte i dipendenti dell’hotel dove risiede De Roller e quelli di discoteche e night club, in particolare negli incredibili gruppi di ballo. Una precisa scelta di regia, anche se certamente facilitata dal fatto che durante le riprese la troupe ebbe a che fare con la paranoia suscitata dalla ben reale pandemia di covid.

In realtà, Pacifiction è un film intimista che funziona per intero su una modalità binaria, duale, che evoca dal punto di vista di un microcosmo nel microcosmo – la Polinesia e Tahiti – un clima generale, anzi quasi planetario, di perdita di senso delle cose, di punti di riferimento certi, di incapacità di vedere la bellezza sotto al proprio naso, compreso il savoir faire di un popolo nelle relazioni umane, nella vita. Un’opera sull’assenza di futuro, di una visione “oltre”, sul dissolvimento della linea di orizzonte. Un paradosso per un film ambientato in un’isola circondata dall’oceano Pacifico. Ma, al contempo, Pacifiction, in particolare nel suo registro formale, dice anche l’opposto.

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Troviamo pure la rappresentazione, l’evocazione dell’immaginario in senso poetico, come espressione dell’interiorità per mezzo della fantasia. Qui si confondono totalmente spazio immaginario, o spazio immaginato, e spazio reale, in quanto risentito, percepito, inteso come spazio fisico in relazione con l’interiorità. E di conseguenza danno luogo anche a uno spazio sognato. Il nostro immaginario collettivo e quel che ciascuno di noi immagina fanno tutt’uno in questa opera di esplorazione sensoriale, in una quasi staticità di fatto. Dopotutto è un’isola chiusa su se stessa, per quanto grande. Quindi un film di contemplazione, per fissarla meglio o per ritrovarla.

In questa luce voluttuosa – tanto amata dai turisti – le luci crepuscolari del tramonto o dell’alba si confondono con quelle notturne e i neon delle discoteche, immergendo lo spettatore in un’atmosfera dolce, soffusa, ovattata. Unite, anzi saldate, in un’unica psichedelia che diventa quasi un’altra dimensione, quella di un onirismo non lontano dal surrealismo, inteso come libero rivelatore dell’inconscio e dei suoi archetipi. Questa isola è chiaramente un gigantesco e avvolgente utero, un ventre materno attraversato, disturbato, da fattori esterni imprevedibili e alieni alla normalità secolare.

Procedere per antitesi
Questi fattori esterni sono la paranoia che avanza, un virus che contamina tutti, alla fine anche De Roller, un uomo di potere buono, ma che detesta quello parigino, e insieme vacuo, che si inonda e ci inonda del suo sproloquiare narcisista, in forte empatia con l’isola e i suoi abitanti. De Roller al contempo è un politicante megalomane: potrebbe anche essere, guardando il suo abbigliamento, un boss della mafia in Florida. Ma il punto è che più il film procede e meno si è certi di dove finisca la paranoia e cominci la realtà.

All’opposto di questa metafisica e di questa inquietudine (o di metafisica dell’inquietudine), troviamo a occupare lo spazio fisico di Tahiti, certo non a caso, la fisicità del corpo massiccio dell’interprete Benoît Magimel, a priori corpo del tutto estraneo all’isola: un bianco che governa una popolazione in gran parte nativa. Ma il suo è un archetipo, e insieme uno stereotipo di machismo, subito contraddetto nei fatti. Per essere un uomo di potere, il suo essere macho è aperto, tranquillo, molto placido. È macho solo fisicamente, nei modi che potremmo definire maschili. Ma accetta tranquillamente, con assoluta naturalezza, la grande attrazione che prova per la seducente trans Shannah, effettivamente splendida hostess (Pahoa Mahagafanau, attrice trans e rivelazione del film) dalla fine intelligenza che lo accoglie all’hotel, diretta antitesi del personaggio di Magimel.

Un’antitesi che si fa però quasi subito complementarietà. Il suo chiacchierare con lei al desk o altrove, come nella discoteca, è poco più di un mormorio, sempre dolce e sereno, come un ruscello che scorre tranquillo nella natura. Film di climax, di ambienti, Pacifiction è anche una festa della bellezza della sensualità, dei corpi e della natura. Sempre in oscillazione tra stereotipo e archetipo, tra il falso e il vero.

Qui di puro e di etero, inteso sia in senso letterale che figurato, vi è solo il concetto di eterogeneità che pare strutturale, congenita.

Magimel insomma, “incarna” questo film extraterrestre e al contempo assolutamente terrestre, dove il corpo massiccio di un uomo si fa concavo, accoglie e poi per quasi metà film avvolge tutti con la sua forza tranquilla, non per questo inattiva. In pratica, è lui l’incarnazione fisica della dimensione uterina del film. Un macho come un utero. Oppure dove il macho e l’utero si equivalgono, due opposti che si fanno una cosa sola.

Pacifiction è molte cose insieme. Tra queste, è un film transgender spinto al suo massimo. Come il portale semifantascientifico verso una nuova fase della natura e della specie umana, poiché in Pacifiction tutto è in osmosi malgrado le contraddizioni. In tal senso la lunga sequenza notturna nello stadio deserto immerso nella natura è a tal punto sospesa e inquietante da evocare un’atmosfera aliena quasi in attesa che un’astronave da un altro pianeta plani sulla superficie del campo, richiamando in qualche misura Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg. Un’atmosfera che si lega, per le tematiche oltre che per l’elemento ricorrente degli ufo, ai grandi registi del cinema asiatico, come il cinese Jia Zhang-ke (Still life, Al di là delle montagne, I figli del fiume giallo) e il tailandese Apichatpong Weerasethakul (fin dal suo film d’esordio di oltre vent’anni fa, Mysterious object at noon, per non parlare del suo ultimo lungometraggio, Memoria, ambientato in Colombia e peraltro prodotto da Jia Zhang-ke). Un cinema “altro” quello del regista spagnolo Serra che pare in contatto spirituale con un modo di fare cinema diverso e di altre latitudini, fino a diventare implicitamente una maniera diversa di concepire la globalizzazione.

Perché in fondo, oltre a parlare molto della Francia, di quello che non vuol vedere, di quello che occulta, del nodo sempre irrisolto del postcolonialismo, questo film recitato in francese, ma ambientato ben lontano dal territorio, ci parla di un sentimento che avvolge tutti noi cittadini del mondo, italiani compresi. Della nostra paranoia, dell’essere immersi nel bello, in una luce voluttuosa, e che in questa rabbia e inquietudine insensata contribuiamo a sottrarci il futuro, a prescindere dal fatto che qualcuno o qualcosa pianifichi per farlo.

Nondimeno, quello di Serra è anche un film pacifico, e non solo perché ambientato nell’oceano Pacifico. O meglio, un film alla ricerca di una dimensione di unitarietà tra gli opposti, che attraversa da equilibrista sul loro crinale, come i surfisti tra le gigantesche onde dell’oceano. E tuttavia è al contempo un film che preannuncia tranquillamente, placidamente, una possibile immane catastrofe, una possibile apocalisse, insensata e idiota quanto segretamente pianificata, che cova, pervasiva. E assolutamente indefinibile, indecidibile. E per quanto non (ci) si possa decidere, sempre profondamente affascinante.

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