Parlare del passato per parlare anche del presente. Questa sembra essere l’intenzione di uno straordinario film russo, in sala dal 5 ottobre e presentato in concorso al festival di Cannes del 2022, realizzato da un regista, Kirill Serebrennikov, gay e attivista lgbt+.

In La moglie di Tchaikovsky sono fondamentali i fuoricampo e gli specchi. Questi ultimi diventano delle sorte di multi-quadri, da intendersi sia come quadri pittorici sia come inquadrature cinematografiche, quasi una metafora costante di entrambi, che crea echi continui nella psiche dello spettatore. Il tutto amplificato da un notevole lavoro sulla profondità di campo, in un vortice di movimenti di camera e di evocazione pittorica, dove non mancano precisi riferimenti al lavoro di grandi esponenti della storia della pittura figurativa.

Questo è evidente fin dal prologo, quando vediamo la moglie del grande compositore russo seduta di fronte agli addetti delle pompe funebri – in un negozio immerso in una luce bianca, diafana, mista a un verdolino chiaro, quasi smeraldo – correggere e rilanciare di continuo, in uno stato di chiara esaltazione amorosa, la frase da inserire sulla fascia da apporre alla corona di fiori del marito morto. Poco dopo, sul carro funebre, l’addetto le dice: “Meglio se indossate un velo più coprente”. “Non ho chiesto il vostro parere”, è la fulminea risposta della donna. Il tono, la forma e insieme il personaggio sono così enunciati in un sol colpo, come già era il caso nella splendida sequenza d’apertura del suo Summer (Leto), del 2018.

Tra queste due sequenze, delle note storiche su schermo nero ci informano che una richiesta di divorzio richiedeva un permesso speciale della corona oppure rilasciato da una corte, entrambi difficili da ottenere in un contesto in cui una donna aveva il proprio nome scritto sul passaporto del marito e non godeva del diritto di voto. Il film ripercorre gli eventi della vita di Pëtr Čajkovskij (interpretato da Odin Lund Biron, attore di teatro nato e vissuto a lungo negli Stati Uniti, impressionante per somiglianza e bravura) e di sua moglie Antonina Miliukova (interpretata dall’esordiente Alyona Mikhaylova, non meno impressionante) a partire dal 1877, quando il compositore aveva 37 anni e lei 28, fino alla morte del musicista, nel 1893. Il regista ha attinto, oltre che da alcuni saggi, dalle lettere della stessa Antonina, e di conseguenza gran parte delle battute sarebbero veritiere.

Dopo le due sequenze citate il film è per intero un lungo flashback. Si comincia con uno stacco nella magnificenza dei salotti dell’aristocrazia russa, la cui raffinatezza voluttuosa sembra oggi inimmaginabile. Avvolti nella delicata dolcezza espressa dalla musica, i colori tra il bianco, il beige e il verdolino lasciano il posto a caldi colori arancio: sequenze e altrettanti climax in cui l’evocazione pittorica suscita nello spettatore l’impressione di muoversi in un gigantesco affresco, quasi un nuotare nella pittura, che si fa nuvola trasudante vapori a olio o ad acquerello, a cominciare dalla luce dei quadri di Vermeer – richiamo riconosciuto dal regista, probabilmente anche per suggerire che allora la Russia era pienamente parte della cultura europea, al contrario di oggi.

Pittura reinventata, trasfigurata, che a poco a poco rivela la reale connotazione del film, quella di un oblio e limbo ovattato, fino all’esplicita sequenza della parte finale che riunisce l’intera famiglia, compresi i figli di Antonina.

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Ma tutto è anche un gran teatro, sul piano formale come nei contenuti: il passato da regista teatrale di Serebrennikov, l’ambito artistico con cui ha cominciato la sua carriera, è lo specchio che, per così dire, rifrange e infrange la grandiosa ed elegante messa in scena, intesa in senso letterale e figurato: per il regista era un’epoca improntata alla grande bellezza, grazia e armonia, ma anche una maschera che occultava una colossale ipocrisia su costumi e privilegi di classe e genere. Come l’omosessualità, svelata in modo graduale nel film, di Čajkovskij, il cui matrimonio serve appunto a mascherare la realtà, a sviare l’immagine altrove, da quello che tutti sanno e intuiscono: poiché nell’aristocrazia a un uomo gay erano concesse e tollerate libertà che non erano concesse e tollerate a una donna, secondo le dichiarazioni del regista. Lo specchio come metafora delle apparenze ma anche degli inganni.

A proposito di specchi, circa a metà film una sequenza magistrale nella stazione ferroviaria annulla ogni confine tra quello che è visto in maniera frontale e quello che è dietro e fuori campo per lo spettatore, ma frontale per la protagonista, poiché la sala d’attesa è una sorta di grande vetrata: vediamo Antonina guardare qualcosa, e allo stesso tempo osserviamo il riflesso di quello che vede, in una tale osmosi da annullare ogni percezione chiara della realtà.

Carcere dorato
Allo stesso modo, poco dopo si annulla ogni senso del tempo: la sala d’attesa si trasforma via via in una sorta d’installazione d’ambiente, in cui si susseguono vari climax. Quello che è un piano sequenza – cioè una ripresa senza tagli di montaggio – paradigmatico di un film che (per)segue dall’inizio alla fine il punto di vista della protagonista, ci porta con un solo movimento, in un flusso unico, dalla partenza del marito al suo non ritorno, dalla presenza all’assenza improvvisa, dal sole caldo alla pioggia invernale, dalla speranza nell’incanto amoroso alla sua dissoluzione brutale e crudele.

È un grande film di atmosfere e allusivo, potremmo quasi dire di poesia o poeticizazione delle atmosfere, malgrado la gravità dei temi, un dramma devastante che soggiace e che gradualmente affiora insopprimibile. E a essere imprigionata in questa illusione, in questo carcere dorato e sospeso, fluttuante e quasi evanescente – benché non manchino anche crudi squarci del mondo concreto, della povertà più nera – è dunque una donna che da un lato ha inseguito uno slancio d’amore assoluto e dall’altro lo ha fatto andando contro ogni convenzione.

Serebrennikov ha voluto verificare insieme allo spettatore se fosse davvero una sprovveduta, come si dice. La verità è che la realtà è ambigua e duplice, e che in quell’epoca così piena di regole, una donna non poteva davvero scegliere, né essere libera.

In nessun modo manicheo, se guardiamo ancora più in profondità è un film sulla dualità: è vero che il cineasta indaga il lato oscuro della società, ma è anche il lato oscuro dell’essere umano a essere esplorato, in quello che lo stesso Serebrennikov definisce un “thriller psicologico”. Nella ricerca del sublime – Pëtr nella musica, Antonina nell’amore – i due protagonisti sono due assoluti che lasciano cadaveri. Nel caso di Antonina in senso letterale: i suoi bambini affidati agli orfanotrofi moriranno tutti. Ma l’essere anche lei una carnefice ha un’attenuante molto grande: non ha mai potuto scegliere nulla liberamente.

Il film lascia nell’animo dello spettatore inquietanti interrogativi. L’essere umano è intrinsecamente folle? Oppure sono la condizione sociale e i costumi, imposti in modo ipocrito e in grado di cancellare ogni verità, che portano a forme di follia, di alienazione?

Romanzo storico sulla condizione umana – prima di tutto femminile ma non solo – e al contempo fredda opera di analisi sociologica sul determinismo sociale che distrugge la libertà personale, l’eccezionale qualità figurativa del film nella composizione di ogni inquadratura, la sua rivestitura avvolgente e seducente, a tratti incantatoria e ipnotica, se non marcatamente onirica, ci suggerisce che la vita è un terribile sogno, o un magnifico incubo. E che questa immane sofferenza è forse tutta illusione, allucinazione.

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