15 novembre 2018 14:40

Mataje è un paese ecuadoriano ma è anche un fiume che nasce in Ecuador e che nella parte finale, quando sfocia nel Pacifico, a sud di Tumaco, segna la frontiera tra l’Ecuador e la Colombia. Quando si sente dire “mataje” si pensa alla parola matas, cespugli, ma anche a matar, uccidere, o matazón, massacro. Effettivamente a Mataje ci sono stati diversi massacri, negli ultimi anni (45 contadini ecuadoriani e colombiani sono stati uccisi nel 2003).

L’ultimo massacro, il più conosciuto, è quello di due giornalisti ecuadoriani e del loro autista. I fatti sono cominciati a Mataje il 26 marzo 2018. I giornalisti si chiamavano Javier Ortega, cronista di El Comercio di Quito, e Paúl Rivas, fotografo dello stesso quotidiano. L’autista era Efraín Segarra.

La storia del loro sequestro, della trattativa del governo ecuadoriano per ottenerne la liberazione e del loro omicidio con colpi di pistola alla testa ordinato da Guacho, il capo del fronte Oliver Sinisterra (una costola non smobilitata delle Farc dedita al narcotraffico), è una storia orrenda, oltre che avvolta dalla nebbia.

Lo stato assente
I racconti più dettagliati del crimine, le confuse e contraddittorie versioni dei governi e la ricostruzione delle circostanze di questo crudele delitto a sangue freddo sono stati resi pubblici alla fine di ottobre, e sono stati resi pubblici in diversi reportage realizzati da un gruppo di giornalisti indipendenti. Qui potete leggere i dettagli.

Dopo aver letto il resoconto, secco e straziante, ho cercato Mataje nel mio atlante della Colombia e poi su Google Maps. Non l’ho trovato. Il fiume si vede serpeggiare fino all’oceano e c’è anche una strada ecuadoriana, la E15, che collega San Lorenzo al fiume. Ma il punto d’arrivo della strada non ha nome. Comunque lì ci sono Mataje e Mataje Nuevo. Sul versante colombiano non ci sono strade, almeno che si sappia. Comunque nelle mappe non figurano. Siamo in una “regione uscita dalla mappa”, per citare il poeta León de Greiff.

L’indagine pubblicata da Forbidden Stories e Verdad Abierta fornisce dati interessanti: sul versante ecuadoriano non ci sono piantagioni di coca, mentre su quello colombiano si trovano le piantagioni più estese del paese. I contadini, di entrambe le nazionalità, attraversano il fiume per coltivare la foglia e produrre la base che i gruppi armati in Colombia trasformano in cocaina, per poi trasportarla, sul Mataje o sull’altro fiume che corre parallelo, il Mira.

L’immagine che offre lo stato colombiano è desolante

La politica del governo ecuadoriano, a quanto pare, è pragmatica: se i narcos non coltivano la coca sul territorio nazionale e se non compiono attentati, l’esercito e le autorità chiudono un occhio. Se Guacho ha organizzato attentati, ha sequestrato e ucciso altri ecuadoriani e ha ucciso i giornalisti, è stato perché il governo di Quito si è messo di mezzo, arrestando tre amici del capo e firmando un accordo con la Colombia per combattere il narcotraffico. L’Ecuador era disposto a liberare i compagni di Guacho in cambio dei giornalisti, ma non c’è stato il tempo.

L’immagine che offre lo stato colombiano è desolante: non controlla il territorio, non può raggiungere le aree remote, dice di combattere la produzione e il traffico di coca e cocaina ma non ha una politica coerente. Non è pragmatico come l’Ecuador (che cerca di tenersi alla larga dai guai) né efficiente con la presunta politica dello scontro frontale con i gruppi armati e il traffico di cocaina. Si sospetta che i gruppi criminali abbiano ricattato e corrotto le nostre autorità. In Colombia accadono sempre le cose peggiori. Anche l’orribile omicidio dei giornalisti è avvenuto sul lato destro del fiume.

Se paragoniamo l’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi a quello dei giornalisti ecuadoriani, ci accorgiamo che il primo è un crimine di stato commesso da un governo che non solo domina il suo territorio, ma agisce anche oltre le frontiere. Nel caso dei giornalisti uccisi in Colombia, invece, abbiamo governi che non hanno ucciso nessun giornalista ma non sono stati capaci di proteggerli e di controllare il loro territorio.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul quotidiano colombiano El Espectador.

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