03 marzo 2023 08:30

Dieci minuti: tanto è durato il vertice Blinken-Lavrov. Il segretario di stato americano Antony Blinken e il capo della diplomazia russa Sergej Lavrov si trovavano entrambi a New Delhi per una riunione dei ministri degli esteri del G20, il gruppo delle principali economie mondiali. È stata la prima volta che i due si sono incrociati dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, un anno fa. Dire che l’incontro è stato breve è un eufemismo.

Il portavoce russo ha persino tenuto a precisare che non c’è stata “nessuna riunione e nessuna trattativa” nel corso della breve conversazione, organizzata su iniziativa degli Stati Uniti.

Questo non-dialogo è il simbolo di ciò che è accaduto in occasione del G20. L’appuntamento è uno dei pochi in cui gli occidentali, i russi e i cinesi si ritrovano abitualmente. È durante il vertice del G20 a Bali dello scorso novembre che Joe Biden e Xi Jinping avevano riaperto il dialogo tra i rispettivi paesi. All’epoca Vladimir Putin era assente.

Non è stato possibile trovare un’intesa nemmeno su una dichiarazione congiunta sulla guerra: russi e cinesi hanno infatti bloccato qualsiasi accordo

Il 2 marzo, a Delhi, il clima era ancora più glaciale, con l’eccezione della presidenza indiana del G20, che contava sulla propria posizione non allineata nella guerra in Ucraina per provare a mediare.

Ma alla fine a Delhi non è stato possibile trovare un’intesa nemmeno su una dichiarazione congiunta sulla guerra: russi e cinesi hanno infatti bloccato qualsiasi accordo, per quanto debole. Il fallimento del vertice conferma che non è ancora arrivato il momento della diplomazia, e questo nonostante gli annunci arrivati negli ultimi giorni, a cominciare dal famoso piano cinese che ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro.

La Cina vive una contraddizione. Da un lato vuole trasmettere l’immagine di una grande potenza che tenta di appianare le tensioni, pubblicando un piano in dodici punti e lanciando un appello al cessate il fuoco con l’alleato di Mosca, il dittatore bielorusso Aleksandr Lukašenko.

Dall’altro, però, Pechino blocca qualsiasi dichiarazione vagamente significativa al G20 e si accoda alla narrativa antiamericana del Cremlino. Il comportamento della Cina appare tanto più contraddittorio se consideriamo che il suo governo si presenta spesso come portavoce se non addirittura leader naturale del “sud globale”, espressone con cui vengono indicati i paesi che si rifiutano di allinearsi con i due schieramenti in Ucraina.

Nel frattempo continua a circolare il sospetto di una fornitura di armi cinesi alla Russia, tutt’altro che irrilevante. Gli Stati Uniti hanno rivelato che Pechino intende consegnare a Mosca materiale “letale”, ovvero equipaggiamenti che non si limitano al campo informatico o logistico. Il governo cinese ha smentito, ma le accuse si sono ripetute in settimana, con una dichiarazione del direttore della Cia William Burn.

Viene da chiedersi come mai gli statunitensi mostrino una tale trasparenza nelle informazioni riservate, un po’ come avevano fatto annunciando in anticipo (e a ragione) l’invasione russa dell’Ucraina. Anche in questo caso, come l’anno scorso, potrebbe trattarsi di un tentativo di dissuasione, accompagnato dalla minaccia implicita di sanzioni.

Questo braccio di ferro segna un momento decisivo della guerra, perché nel caso in cui la Cina inviasse davvero materiale bellico (si parla di droni, almeno in una prima fase) i rapporti di forza ne sarebbero modificati. Gli Stati Uniti vogliono convincere Pechino a non varcare il Rubicone. Il fallimento dell’incontro del G20, da questo punto di vista, è di pessimo auspicio.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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