I racconti dei sopravvissuti al carcere di Sednaya vanno oltre l’orrore. Questa prigione, descritta come “un mattatoio di esseri umani” da Amnesty International, è il simbolo del sistema repressivo su cui si basava il regime degli Assad, padre e figlio.

I siriani, ovunque vivano nel mondo, oggi cercano informazioni sui loro cari scomparsi. Liste di prigionieri e morti sono pubblicate su Facebook dopo l’apertura delle carceri. Il risvolto emotivo è immenso.

Ma perché ne siamo sorpresi? Certo, la forza del racconto di un sopravvissuto o l’immagine di un bambino nato in carcere che non ha mai vissuto fuori dai suoi cancelli sono sconvolgenti, ma già prima sapevamo molto. Conoscevamo le dimensioni della macchina di morte del regime Assad, eppure il mondo non ha fatto nulla.

Sarah Hunaidi, giovane autrice e attivista siriana in esilio dal 2014, ha scritto su X di non avere più nulla da dire a chi ha osservato la morte lenta della Siria. “I nostri allarmi sono stati ignorati. L’Onu è una farsa, come dimostrano Gaza e la Siria. A questo punto intendo parlare solo ai siriani, e al diavolo il resto del mondo”.

Purtroppo Hunaidi ha in gran parte ragione, perché i massacri compiuti in Siria in anni di guerra civile sono stati documentati accuratamente dalle ong e dai giuristi nella speranza di provocare una reazione.

Il momento cruciale è stato senza dubbio il caso Caesar, nome in codice di un ex ufficiale della polizia militare siriana con l’incarico di fotografare i detenuti torturati e giustiziati. Caesar è fuggito portando con sé 45mila scatti che sono stati verificati e inseriti nei rapporti dell’Onu e di altre organizzazioni internazionali. Le immagini sono state utilizzate anche in rari processi contro i torturatori, in Francia e in Germania.

Le testimonianze non mancavano. La scrittrice Samar Yazbek, intellettuale alawita, ha raccontato che quando ha sostenuto la rivolta del 2011 è stata portata in un centro di tortura in cui le hanno fatto vedere cosa le sarebbe toccato se non si fosse fermata. Yazbek è fuggita a Parigi, in Francia, diffondendo un racconto agghiacciante sulla struttura che aveva visto. Sono passati dieci anni da allora.

Cosa si sarebbe potuto fare? Questa è la domanda che perseguita il nostro mondo. Abbiamo eretto i diritti umani a dogma universale, ma non abbiamo i mezzi per farli rispettare. Dal 1945, con il “mai più” davanti all’orrore dei campi nazisti, la comunità internazionale ha creato istituzioni e meccanismi destinati a proteggere i diritti umani.

Questi strumenti si scontrano con la sovranità degli stati e con il cinismo della comunità internazionale. Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ne è il miglior esempio: i predatori si fanno eleggere all’interno dell’istituzione per paralizzarla.

Sulla scia della caduta del muro di Berlino il concetto di “dovere di ingerenza” aveva cominciato a essere di moda, ma nel mondo frammentato di oggi l’ingerenza è tornata a essere un tabù, anche a causa dell’invasione dell’Iraq voluta dall’amministrazione Bush nel 2003.

Il risultato è che siamo condannati a sapere senza agire, se non marginalmente. Quando per miracolo le porte delle carceri si aprono, ciò che vediamo è il riflesso della nostra impotenza.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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